Breve storia del nulla
Il vuoto dall’antichità alla fisica contemporanea
di Paolo Lenisa
Il “vuoto”, comunemente, viene associato al “nulla”. Se un bicchiere contiene solo aria si dice che è vuoto, ma l’affermazione non è corretta, perché l’aria è materia anch’essa, seppure molto poco densa. Il vuoto costituisce uno dei concetti più complessi e controversi che abbiano interessato il pensiero umano. E la storia del vuoto rappresenta più una serie di fallimenti che di successi. Eppure, ogni fallimento è stato origine di nuove idee e paradigmi di pensiero, l’ultimo dei quali aspetta ancora di essere definito e rappresenta uno dei misteri più stimolanti della fisica contemporanea.
I primi a interrogarsi sul vuoto furono i Greci. Democrito ipotizza che la materia sia composta da atomi (vd. Per fare l'albero, ndr). L’ipotesi di una materia localizzata in punti specifici dello spazio e non distribuita in modo uniforme implica l’esistenza del vuoto, inteso come assenza di materia, ovvero assenza di atomi. La presenza di un vuoto infinito rende quindi possibile l’esistenza degli atomi, che si possono muovere all’interno di esso. Dal loro movimento e dai loro scontri deriva la caratteristica della natura di trasformarsi incessantemente, dal loro aggregarsi la formazione di tutte le cose che ci circondano. Secondo Aristotele, invece, la natura “aborrisce il vuoto” di modo che, quando da un luogo viene tolta tutta la materia, producendo appunto il vuoto, immediatamente nuova materia si precipita a colmarlo (questo concetto è noto come “horror vacui”, la paura del vuoto, vd. anche [as] radici: La sconfitta dell'horror vacui, ndr).
Uno degli argomenti a supporto della non esistenza del vuoto era l’interpretazione che Aristotele dava del movimento. Aristotele era convinto che la velocità di un corpo fosse direttamente proporzionale alla forza applicata e inversamente proporzionale alla densità del mezzo. Una densità nulla, come quella implicata dal vuoto, avrebbe comportato un corpo che si muovesse con velocità infinita, il che risultava impossibile. Aristotele utilizzò il concetto di orrore del vuoto per spiegare come una freccia si mantenga in moto dopo aver lasciato l’arco dalla quale è stata scoccata. Secondo lui per mantenere in moto un oggetto era necessaria l’applicazione costante di una forza.
Nella sua concezione, la freccia in movimento crea una sorta di vuoto dietro di sé e l’aria che si precipita a riempirlo spinge la freccia in avanti.
Fu necessario attendere due millenni per interpretare correttamente il moto della freccia senza la necessità di chiamare in causa il vuoto, e fu grazie al principio d’inerzia. Questo concetto fu definitivamente acquisito solamente nel 1600 con i contributi di Galileo Galilei, Cartesio e Isaac Newton. Secondo il principio d’inerzia, non è necessaria l’azione di alcuna forza per mantenere un corpo in movimento, il che significa che un corpo non soggetto a forze procede a velocità costante oppure resta in quiete.
La teoria aristotelica dell’“horror vacui” rimase in auge fino al XVII secolo. Molte osservazioni dell’esperienza quotidiana sembravano confermare la teoria, ma esisteva qualche fenomeno al quale la teoria non era in grado di dare risposta. Uno di questi era un fatto noto sin dall’antichità: l’impossibilità di estrarre l’acqua per mezzo di pompe aspiranti da pozzi molto profondi. Tali pompe consistevano di un cilindro, all’interno del quale era libero di scorrere uno stantuffo aderente alle pareti, mosso da una leva. Abbassando la leva, lo stantuffo veniva tirato verso l’alto lasciando uno spazio vuoto nella parte superiore del cilindro. Siccome si riteneva che la natura avesse orrore del vuoto, immergendo il cilindro in una cisterna piena d’acqua, quest’ultima si sarebbe dovuta innalzare. L’esperienza mostrava che, effettivamente, l’acqua si precipitava nel vuoto creato dallo stantuffo, ma solo fino a quando il dislivello fra l’acqua nella cisterna e la sommità del cilindro era inferiore a 10 metri.
La questione venne risolta solamente nel 1643, da un discepolo di Galilei: il fisico Evangelista Torricelli. L’intuizione determinante per la soluzione dell’enigma fu che l’aria abbia un suo peso. Torricelli capì che l’acqua sale all’interno del tubo dal quale viene aspirata l’aria, non perché va a colmare il vuoto “temuto” dalla natura, ma perché spinta dalla pressione esercitata dal peso dell’aria sovrastante.
Ritratto di Aristotele (busto in marmo, Museo del Louvre, Parigi). Copia del I o II sec. a. C. di una scultura in bronzo di Lisippo andata persa.
Sappiamo ora che non si tratta di un vuoto vero e proprio, perché il vuoto torricelliano contiene una piccola quantità di vapori di mercurio. Quello raggiunto, ad esempio, nei moderni acceleratori di particelle, come nel Large Hadron Collider (LHC) del CERN di Ginevra, è di oltre 10 ordini di grandezza “più vuoto” (vd. C'è nessuno?, ndr)!
La breve storia del vuoto prosegue alla fine del 1800 in relazione alla propagazione della luce. In base alle idee introdotte dal fisico James Clerk Maxwell, si sapeva che la luce era un’onda. Le esperienze quotidiane forniscono alcune nozioni preconcette sulle onde. Ad esempio, si osserva che per sentire un suono, le onde sonore devono propagarsi attraverso qualcosa (aria o acqua). Senza un materiale attraverso il quale muoversi, non c’è suono da sentire. Per analogia, la fisica nel XIX secolo postulava che per la propagazione delle onde elettromagnetiche, come quelle luminose nello spazio, fosse necessaria la presenza di un mezzo materiale. Mutuando un termine della filosofia greca, questo mezzo venne chiamato “etere luminifero”.
L’horror vacui (terrore del vuoto) è un concetto che ricorre in varie discipline. In fisica e in filosofia indica una teoria ideata da Aristotele che afferma che “la natura rifugge il vuoto” (natura abhorret a vacuo) e perciò lo riempie costantemente. Nell’arte definisce l’atto di riempire completamente l’intera superficie di un’opera con dei particolari finemente dettagliati. Analogo uso conosce nella decorazione e nell’arredamento. Un esempio di horror vacui nell’arte è il sarcofago “Grande Ludovisi” nella foto, un’opera del III secolo conservata a palazzo Altemps a Roma. In questo caso una scena di battaglia tra romani e barbari è raffigurata come un ammasso di corpi che riempie tutta la superficie.
Nel 1887 Albert Abraham Michelson ed Edward Morley effettuarono un esperimento che aveva l’obiettivo di trovare traccia dell’etere. Tale esperimento sarebbe diventato uno degli esperimenti falliti più famosi della storia della fisica. L’idea alla base dell’esperimento può essere visualizzata con l’analogia di una persona che nuota in un fiume.
A seconda che il nuotatore stia nuotando controcorrente o meno, la sua velocità rispetto a un osservatore fermo sulla riva del fiume cambierà. In questa analogia, il fiume rappresenta l’“etere” e il nuotatore la luce. L’esperimento si proponeva di misurare la velocità della luce a seconda che essa “nuoti” a favore o contro la corrente d’etere. Michelson e Morley osservarono che, indipendentemente dalla direzione in cui “nuotava”, la velocità della luce rimaneva costante. Nella nostra analogia con il fiume, significherebbe che, indipendentemente da velocità e direzione della corrente, il nuotatore continua a nuotare allo stesso ritmo costante. Ciò va contro la fisica classica e le nostre intuizioni sul movimento. Il risultato di questo esperimento implica che non esiste un punto di vista assoluto per misurare gli eventi. La capacità di accettare e interpretare senza preconcetti questa “sconcertante” evidenza fu essenziale per la concezione della teoria della relatività speciale di Einstein: uno dei punti di partenza della fisica moderna.
Tuttavia, le due teorie che rappresentano i pilastri della fisica moderna, la meccanica quantistica e la relatività generale, non riescono a conciliare l’attuale visione del vuoto.
La meccanica quantistica ci presenta un’immagine del tutto nuova di vuoto, come spazio pervaso da continue fluttuazioni energetiche. Lo spazio vuoto non è affatto vuoto: appare tale solo perché la creazione e la distruzione incessante di particelle si verificano su intervalli temporali brevissimi e tali da non permettere allo sperimentatore la loro rivelazione. Significa che qualunque regione finita di spazio vuoto è piena di energia. La fisica moderna individua nel vuoto lo stato in cui questa energia è la minore possibile. Nel gergo scientifico, questa energia è chiamata “energia di punto zero” (vd. Molto rumore per il nulla e Un salto nel vuoto, ndr).
D’altro canto, l’energia del vuoto costituisce una spiegazione possibile dell’“energia oscura”, la ragione per cui l’universo, invece di rimanere statico o espandersi in modo decelerato come farebbe se contenesse solo materia e radiazione, stia invece accelerando la sua espansione sempre più (vd. L'assenza del tutto, ndr).
L’energia oscura potrebbe essere spiegata invocando la costante cosmologica, un termine matematico nelle equazioni della relatività generale che può determinare proprio l’effetto di accelerazione dell’espansione. Oppure può essere spiegata introducendo un termine che cambia nel tempo, e che in certi modelli è stato chiamato “quintessenza”, creando un riferimento suggestivo ancora una volta ad Aristotele, che lo indicò come il quinto elemento per denotare l’essenza del mondo celeste, in aggiunta ai quattro elementi dei filosofi precedenti: acqua, aria, terra e fuoco.
L’esperimento di Michelson e Morely, con cui si cercò di mettere in evidenza il moto della Terra rispetto all’etere luminifero, fu realizzato nel 1887 presso la Case Western Reserve University di Cleveland. In figura è mostrato un interferometro simile a quello originale, utilizzato da Morley e Miller nel 1903-1905, con cui fu ripetuto l’esperimento, confermando i risultati del 1887.
In entrambi i casi, se cerchiamo di identificare l’energia oscura con un effetto dovuto all’energia del vuoto, il problema che si pone è che la quantità che osserviamo essere presente nell’universo è troppo piccola se paragonata a quanto ci aspetteremmo dalle fluttuazioni quantistiche descritte sopra. Quando gli scienziati iniziarono a pensare a questo concetto, calcolarono che questa energia avrebbe dovuto essere enorme, e questo avrebbe causato un’espansione dell’universo così intensa e rapida da non permettere la formazione di stelle e galassie. Dal momento che non è così, l’energia del vuoto nell’universo deve essere molto più piccola. Le misure cosmologiche della densità di energia oscura dicono che questa energia è l’equivalente di 4 atomi di idrogeno per metro cubo, mentre quella calcolata secondo la meccanica quantistica dovrebbe corrispondere a 100 miliardi di miliardi di volte la massa dell’intero universo osservabile, compressa nello stesso volume. Si tratta di una discrepanza di circa 120 ordini di grandezza che ha spinto alcuni scienziati a definire l’energia del vuoto “la peggiore previsione teorica nella storia della fisica”.
Qualunque sia il termine utilizzato, l’enorme discrepanza tra la quantità di energia del vuoto prevista teoricamente e la quantità misurata nell’universo rappresenta uno dei problemi più scomodi, imbarazzanti e difficili della fisica teorica contemporanea.
La più precisa, vasta e dettagliata mappa 3D dell’universo mai realizzata, ottenuta recentemente dai dati raccolti dallo strumento DESI (Dark Energy Spectroscopic Instrument) in Arizona. Questa mappa permetterà di misurare l’espansione del cosmo negli ultimi 11 miliardi di anni e il ruolo che ha in questo processo la misteriosa energia oscura.
Biografia
Paolo Lenisa è docente di fisica subatomica e fisica generale presso l’Università di Ferrara. Fisico sperimentale, si occupa di struttura del protone e di ricerca del momento di dipolo elettrico in anelli di accumulazione. Si interessa di storia della fisica e divulgazione scientifica.