[as] riflessi
Il cielo in una stanza
di Matteo Massicci
Per quanto costituisca “l’ultima frontiera” dell’esplorazione umana, come recita l’incipit di una famosa saga televisiva di fantascienza, l’attributo che si presta meglio a descrivere lo spazio è forse quello di “vuoto”. Con una densità caratteristica enormemente inferiore a quella dell’atmosfera terrestre, lo spazio interplanetario e interstellare si avvicina infatti molto a ciò che concepiamo, almeno idealmente, come mancanza assoluta di alcunché. Una condizione che, in assenza di fenomeni convettivi o conduttivi di trasmissione del calore, fissa in maniera rigida e stabile le rivelazioni della colonnina delle temperature, che si aggirano, nel caso del vicinato spaziale della Terra, intorno ai -150 °C di minima e ai 120 °C di massima dovuti all’esposizione alla radiazione solare. Temperature che rendono l’ambiente inospitale non solo per la vita, ma anche per il funzionamento di sonde e satelliti. Questo è il motivo per cui la capacità di veicoli spaziali di operare nello spazio viene messa alla prova e certificata prima del loro lancio attraverso test che fanno ricorso a speciali dispositivi, noti come “camere termovuoto”, in grado di riprodurre pressioni e temperature del vuoto spaziale. Ne abbiamo parlato con Alessandro Stolfa, direttore del Centro Integrazione Satelliti di Thales Alenia Space.
[as]: Quale è l’obiettivo principale dei test condotti all’interno delle camere termovuoto?
[Alessandro Stolfa]: Sin dall’inizio dell’esplorazione spaziale, lo sviluppo e l’utilizzo di camere termovuoto ha sempre avuto come obiettivo ricreare le peculiari condizioni ambientali presenti nello spazio. Se infatti i fenomeni di dilatazione, a cui sono sottoposti nello spazio i materiali che compongono i veicoli spaziali, possono essere gestiti con relativa facilità, adottando opportuni accorgimenti durante la fase di costruzione, la difficoltà di prevedere con precisione come l’elettronica reagisca all’interno di strutture di piccole dimensioni, come quelle di cui si compongono i satelliti, alle estreme variazioni di temperatura dell’ambiente spaziale, rimane ancora oggi elevata.
[as]: Quali sono le caratteristiche di questi strumenti e in che modo riescono a riprodurre le condizioni dell’ambiente spaziale?
[A]: Contraddistinte da una forma cilindrica, le dimensioni delle camere variano sulla base dei veicoli spaziali che devono essere testati, con grandezze che vanno da pochi litri fino a migliaia di metri cubi, come quelle in dotazione all’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e alla NASA. Questi oggetti sono sempre costituiti da un cosiddetto “vessel”, la parte esterna del cilindro in grado di sopportare la differenza di pressione di 1 bar tra interno ed esterno, e da una componente termica (“shroud”), presente all’interno del vessel, dotata di un’intercapedine che viene riempita con un fluido termovettore come l’azoto, sia liquido che gassoso, o l’elio, in caso ci sia bisogno di raggiungere temperature ancora più basse. Questi strumenti dispongono poi di un sistema da vuoto suddiviso in un gruppo di pompe criogeniche e turbomolecolari per l’alto vuoto e di un gruppo di pompe per il basso vuoto (vd. Sotto-pressione, ndr). Grazie a questi sistemi, le camere che utilizziamo per le qualifiche sui nostri satelliti possono raggiungere temperature minime di -190 °C e massime di 150 °C e una pressione di 10-7 mbar, simulando così lo spazio profondo. L’ultimo sottosistema di cui sono dotate le camere termovuoto è quello di acquisizione dati, costituito da centinaia di cavi collegati ad altrettanti sensori che si estendono dall’interno all’esterno della camera. La presenza di questi cavi di setup contribuisce a rendere il test del termovuoto la parte più complessa e dispendiosa della qualifica di sistemi spaziali, richiedendo fino a cinque mesi per la preparazione e verifica dei sottosistemi della camera stessa e per il successivo svolgimento di cicli di termovuoto che coinvolge il satellite.
[as]: Perché i test di termovuoto sono così importanti e a quali procedure e verifiche vengono sottoposti i veicoli spaziali durante questa fase della loro qualifica per il volo?
[A]: I test di termovuoto si suddividono in due momenti distinti. In una prima fase, chiamata di “thermal balance”, viene messo alla prova e analizzato il modello termico matematico dell’apparato realizzato sulla base di una progettazione elaborata in funzione di quella che sarà l’orbita della missione. L’obiettivo di questa attività è verificare la capacità di trasmissione e dissipazione del calore da parte dei satelliti, ovvero le loro prestazioni in termini di bilanciamento termico, ottenuto con sistemi di controllo automatici che mantengono le temperature in un determinato intervallo. Una volta appurato in questo modo che il bilancio termico del satellite è effettivamente quello previsto, si passa al secondo ciclo di test in termovuoto, il cui obbiettivo è verificare le performance delle componenti del satellite, sia di quelle del modulo di servizio responsabile dell’erogazione dell’energia elettrica, della gestione dell’orbita e dell’assetto del satellite, sia di quelle degli strumenti che compongono il carico utile (payload).
[as]: Quali fattori possono incidere negativamente sul funzionamento dei satelliti testati e di conseguenza sull’esito dei cicli di termovuoto?
[A]: Insieme alla complessità tecnica che abbiamo raccontato, ulteriori aspetti che possono incidere sulla riuscita dei test di termovuoto riguardano il fenomeno di degassaggio e la contaminazione delle superfici del satellite. La diminuzione della pressione all’interno delle camere durante i test comporta infatti la volatizzazione di molte molecole di acqua, ma non solo, presenti nei materiali di cui si compongono i satelliti, le quali devono essere estratte insieme all’aria per evitare momentanei aumenti localizzati di pressione, che potrebbero provocare scariche elettrostatiche in grado di danneggiare le componenti del veicolo. Per le stesse ragioni, la contaminazione all’interno delle cavità delle camere termovuoto deve essere monitorata costantemente e ciò viene fatto grazie all’impiego di microbilance al quarzo.