[as] radici
Dividere l’indivisibile
di Adele La Rana
storica della fisica
Partendo dall’alto a sinistra e procedendo in senso orario: Ginestra Amaldi, Laura Fermi, Edoardo Amaldi e il figlio Ugo, Enrico Fermi e il figlio Giulio (Pera di Fassa, 1954).
“Spaccare l’atomo!”: così annunciava la fascetta che avvolgeva il primo libro italiano dedicato a divulgare al grande pubblico la fisica nucleare. Correva l’anno 1936 e il volume s’intitolava “Alchimia del tempo nostro”. A realizzare l’opera erano state due giovanissime autrici, al loro debutto come scrittrici scientifiche: Ginestra Amaldi e Laura Fermi, mogli rispettivamente di Edoardo e di Enrico.
Testimoni attive delle ricerche dei ragazzi di via Panisperna, Laura e Ginestra descrivevano l’avventuroso percorso che dalla scoperta della radioattività naturale, alla fine dell’800, aveva condotto nel giro di una quindicina d’anni all’identificazione della struttura dell’atomo e poi all’esplorazione della materia a scale ancora più piccole, fino a svelare, nel corso di altre due decadi, la composizione del nucleo atomico e a produrre la radioattività artificiale. Con sapiente semplicità, le due autrici introducevano il lettore alla frontiera delle ricerche sulla materia e alla nascita, nei primi anni ’30, della fisica nucleare. L’atomo, quel frammento ritenuto per molti secoli unità fondamentale, immutabile e indivisibile della materia, era divenuto, nel corso di soli 40 anni, un oggetto composito e trasmutabile.
L’idea di frantumare l’atomo era entrata nell’immaginario scientifico diverso tempo prima. Già agli inizi del ’900, Thomson – scopritore dell’elettrone nel 1897 – sfidava i suoi collaboratori a spaccare (“smash up”) gli atomi con i raggi X. In generale, tra i fisici e i radiochimici d’inizio secolo aleggiava l’ambizione di varcare la soglia atomica.
Al tempo, la chiave di accesso al mondo subatomico appariva essere la radioattività. Poco dopo aver scoperto con suo marito Pierre l’elemento radio (1898), la stessa Marie Curie aveva suggerito che la radioattività potesse originarsi nell’atomo, invece che scaturire da una reazione chimica o da un’interazione con l’ambiente.
La natura della radioattività e l’origine dell’energia emessa furono oggetto di accanite indagini negli anni successivi. Nel 1902 Rutherford, insieme al collega radiochimico Frederick Soddy, corroborò con numerosi risultati sperimentali l’idea che un elemento radioattivo subisse un processo di trasformazione a livello atomico, perdendo la propria integrità originaria (“disintegrandosi”) e trasmutando in un altro elemento. Intorno al 1903 cominciò a diffondersi l’espressione “disintegrazione dell’atomo” per descrivere il processo alla base della radioattività.
In una serie di esperimenti svolti tra il 1915 e il 1919, Rutherford riuscì finalmente nell’impresa di frammentare l’atomo, anzi, il denso nucleo positivo al suo interno – scoperto dallo stesso Rutherford qualche anno prima. Le particelle α emesse da una sorgente radioattiva venivano usate come proiettili per colpire nuclei di azoto. Rutherford mostrò che ne scaturivano particelle di carica positiva e massa unitarie: di fatto, nuclei di idrogeno. Aveva estratto, per la prima volta, un costituente fondamentale della materia nucleare, il protone!
Rutherford suggerì che particelle α più energetiche avrebbero potuto disintegrare altri elementi, superando la forza elettrica repulsiva esercitata dal nucleo. Di qui la necessità di accelerare i proiettili subatomici. Nel 1932 John Cockcroft ed Ernest Walton misero in funzione l’acceleratore elettrostatico da loro ideato e realizzarono per la prima volta una disintegrazione nucleare indotta da particelle accelerate (protoni). Riuscirono a spaccare in due metà un nucleo leggero, producendo due nuclei di elio. L’espressione “the atom split” campeggiò sulle pagine di molti giornali.
La scoperta più rilevante del 1932 fu, però, l’identificazione da parte di Chadwick del secondo ingrediente del nucleo, il neutrone, che segnò l’effettivo inizio della fisica nucleare.
Con l’emergere del modello di Heisenberg e Majorana – che descriveva il nucleo come costituito di protoni e neutroni – e i primi tentativi di descrivere le forze nucleari, capaci di vincere la repulsione coulombiana tra protoni, si varcava una nuova frontiera delle indagini sulla materia.
È a questo punto della storia narrata da Laura e Ginestra, nella seconda parte del libro, che fanno la loro comparsa i giovani ricercatori di via Panisperna, Franco Rasetti, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Bruno Pontecorvo e Oscar D’Agostino.
Enrico Fermi a via Panisperna, nei primi anni ’30. La sua teoria del decadimento β apriva la strada alla teoria dell’interazione debole. Con intuito formidabile (“CIF” come scherzava lui stesso, acronimo che compare abbastanza spesso nei suoi scritti, un residuo di goliardia giovanile), Fermi ipotizzò che l’elettrone non preesiste nel nucleo, ma si forma al momento del decadimento, tramite una trasformazione del neutrone in un protone, con la conseguente emissione di un elettrone. Nel contempo, viene emesso anche un neutrino, secondo l’ipotesi di Pauli.
Fermi è menzionato per la prima volta quando, alla fine del 1933, formula la teoria del decadimento β. Assumendo per il nucleo la struttura a protoni e neutroni, e mettendo a frutto l’ipotesi del “neutrino di Pauli” (oggi identificato con il neutrino elettronico), gettava finalmente luce sul tipo più misterioso di radioattività: l’improvvisa emissione, da parte di un nucleo, di un elettrone e la trasmutazione in un elemento di numero atomico superiore. Nella teoria di Fermi l’elettrone non preesisteva nel nucleo, come si ipotizzava al tempo, ma veniva creato nel processo di “trasformazione” di un neutrone in protone (con associata emissione di un’elusiva nuova particella, il neutrino).
Nel gennaio del 1934 Irène Curie e suo marito Frédéric Joliot produssero per la prima volta la radioattività artificiale, bombardando con particelle α un sottile strato di alluminio e osservandone l’attivazione. Subito dopo, Fermi intuì che i neutroni sarebbero stati proiettili ben più efficaci a indurre reazioni nucleari, non risentendo delle forze coulombiane.
Allestì un apposito esperimento, utilizzando come sorgente
una miscela di radon e berillio: le particelle α emesse dal
radon colpivano il berillio, producendovi l’espulsione di neutroni. Fermi mise alla prova la sua recentissima teoria del decadimento β, esponendo ai neutroni prima il platino, poi l’alluminio e il fluoro, elementi ricchi in neutroni e quindi, secondo i suoi calcoli, più “instabili” e più favorevoli a produrre radioattività β. Con l’alluminio e il fluoro osservò quanto cercava: i neutroni inducevano nel bersaglio, prima inerte, la formazione di nuclei radioattivi!
Laura Fermi aveva frequentato tre anni del corso di laurea in scienze naturali, interrompendo gli studi dopo il matrimonio, ma subito dopo aiutando il marito nella stesura di un volume di fisica per le scuole superiori. Ginestra Amaldi si era laureata in fisica e aveva collaborato negli anni successivi al calcolo di funzioni d’onda elettroniche con il metodo Thomas-Fermi, entrando poi nella redazione della rivista del CNR “La Ricerca Scientifica”, dove ebbe un ruolo fondamentale nella pubblicazione e rapida diffusione dei lavori del gruppo di via Panisperna. Il libro di Laura e Ginestra ebbe una buona diffusione, come testimonia il fatto che una seconda edizione ampliata fu pubblicata nel 1943, in pieno periodo di guerra.
Nei mesi successivi del 1934 i ragazzi di via Panisperna bombardarono sistematicamente gli elementi della tavola periodica, producendo una quarantina di nuovi nuclìdi radioattivi e affermandosi a livello internazionale tra i pionieri della fisica nucleare. La loro scoperta più importante – l’efficacia dei neutroni lenti a innescare la radioattività – sarebbe arrivata in ottobre, ma intanto credettero di averne fatta una particolarmente rilevante a maggio.
Giunsero infatti a irraggiare l’ultimo e più pesante elemento allora conosciuto della tavola periodica, l’uranio (numero atomico pari a 92). Ottennero un nuclìde radioattivo avente un’emivita di tredici minuti, risultato che Fermi interpretò, con una certa cautela, come la possibile produzione del primo elemento “transuranico”. Seguendo il ragionamento usato per gli altri casi, infatti, Fermi ipotizzò che l’uranio catturasse il neutrone-proiettile e poi decadesse β, trasformandosi nell’elemento di numero atomico immediatamente successivo nella tavola periodica.
Critiche a questa ipotesi giunsero presto dalla chimica tedesca Ida Noddack, nota per aver scoperto con il marito Walter l’elemento renio. In un articolo sul presunto “elemento 93”, sottolineò la mancanza di rigore da parte di Fermi nell’interpretazione dei risultati e suggerì l’idea che, tra le varie possibilità da vagliare, c’era quella che l’uranio si fosse spezzato in nuclei più piccoli. Intanto, però, a Berlino Otto Hahn e Lise Meitner confermarono con diversi articoli i risultati di Fermi. Finalmente, nel dicembre 1938, Hahn e Fritz Strassmann, coadiuvati da Meitner, scoprirono che l’uranio, colpito da un neutrone, si disintegrava in due nuclei di massa confrontabile. Non si trattava quindi di separazione di frammenti piccoli e periferici di materia nucleare, come ipotizzato fino ad allora: era una vera e propria spaccatura di un nucleo pesante. Un fenomeno del tutto nuovo, per il quale fu coniato un nome inedito, mutuato dalla biologia cellulare: “fissione” (vd. Le stelle in una stanza, ndr).
La fissione dell’uranio colse tutti di sorpresa, perché implicava “effetti nucleari collettivi”. Il proiettile causa una vibrazione e deformazione dell’intero nucleo: come fosse un corpo elastico, questo si allunga e strozza nel mezzo, fino a spezzarsi in due. Un comportamento del genere necessitava di una descrizione d’insieme, che integrasse il modello nucleare “a goccia di liquido” di George Gamow con il nucleo composto di Niels Bohr, una teoria che muoveva i primi passi proprio mentre “Alchimia del tempo nostro” veniva pubblicato. Fermi e gli altri non avevano alcun sospetto di avere davvero realizzato quanto la pubblicità annunciava sulla copertina.