Uguali e contrari
Antiparticelle e antimateria
di Simone Stracka
Quando studiamo la materia a volte ci imbattiamo in qualcosa che ne rappresenta l’antitesi: l’antimateria. La troviamo intorno a noi in piccole quantità, prodotta dai decadimenti radioattivi di elementi quali il potassio, presenti nei tessuti animali e vegetali o nelle rocce. La osserviamo nei fenomeni atmosferici e cosmici, come quelli in cui Patrick Blackett e Giuseppe Occhialini fotografarono, per la prima volta nel 1932, la creazione di coppie di particella e antiparticella a partire da radiazione elettromagnetica. Calcoli recenti hanno inoltre stimato che una frazione rilevante della massa del protone è dovuta proprio a particelle di antimateria, che come un mare che ribolle si creano e si distruggono incessantemente con i loro corrispettivi di materia, in un tempo così piccolo da rendere impossibile rivelarle (e che per questo motivo sono dette “particelle virtuali”).
L’antimateria era stata immaginata già sul finire dell’800, senza solide basi scientifiche. Queste furono poste nel 1928 dal fisico inglese Paul Dirac quando scrisse l’equazione che doveva rappresentare le particelle dotate di spin 1/2, una quantità introdotta per spiegare alcune peculiarità dei livelli energetici occupati dagli elettroni negli atomi. Risolvendo questa equazione si ottenevano quattro soluzioni, invece delle due strettamente necessarie a spiegare le misure sperimentali esistenti. Nel 1932, accogliendo le osservazioni di Hermann Weyl e Robert Oppenheimer, Dirac affermò che le due soluzioni in più dovessero indicare l’esistenza di particelle di antimateria, aventi cariche opposte a quelle di materia e con le altre caratteristiche, come la massa, identiche (questo è quello che intendiamo con “immagine allo specchio” della materia). Pochi mesi dopo Carl David Anderson scoprì il positrone (l’antielettrone), la prima di molte antiparticelle a essere osservata. A ogni particella di materia, infatti, corrisponde la propria antiparticella: all’elettrone il positrone, al protone l’antiprotone, al neutrone l’antineutrone, e così via (in alcuni casi, come per il fotone, particella e antiparticella coincidono).
Nel nostro universo dominato dalla materia, però, un’antiparticella è destinata in breve tempo a incontrare la corrispondente particella con cui si annichila – un processo nel quale materia e antimateria, combinandosi, si trasformano in forme diverse di radiazione che dipendono dall’energia e dalla natura delle particelle coinvolte. Nel caso di elettroni e positroni a bassa energia è molto probabile che il risultato sia l’emissione di due raggi gamma, sfruttata in tecniche di diagnostica medica come la tomografia a emissione di positroni (PET).
Quando ad annichilirsi sono particelle più pesanti e complesse, invece, ne possono risultare più spesso altri tipi di particelle. È quindi senz’altro una fortuna, e allo stesso tempo un mistero, che nella nostra galassia l’antimateria sia presente solo in piccole quantità, altrimenti svaniremmo in men che non si dica in un lampo di fotoni e altre particelle. Pensiamo che agli albori della storia dell’universo non fosse però così, e che materia e antimateria fossero presenti in quantità simili. Queste si sarebbero annichilite dando origine al fondo di radiazione elettromagnetica che permea lo spazio. Solo meno di un miliardesimo delle particelle inizialmente presenti sarebbero sopravvissute fino ad oggi, e quasi tutte di materia, lasciando un cosmo apparentemente privo di regioni composte da antimateria.
L’esperimento LHCb al Large Hadron Collider studia le asimmetrie di comportamento tra materia e antimateria nei decadimenti dei mesoni B e D.
I mesoni al centro di queste misure sono una sorta di ibrido, costituito da un quark (materia) e un antiquark (antimateria) tenuti insieme dalla forza nucleare forte. Non sono però questi gli unici sistemi composti da materia e antimateria che siamo in grado di produrre. Un caso particolarmente interessante è l’elio antiprotonico, formato mescolando elio gassoso o liquido con gli antiprotoni lenti forniti dall’Antiproton Decelerator (AD) del CERN. Di tanto in tanto uno dei due elettroni dell’elio viene sostituito da un antiprotone che inizia a orbitare intorno al suo nucleo al posto dell’elettrone, generando un atomo esotico che può sopravvivere diversi microsecondi prima di disintegrarsi.
La sezione verticale dell’esperimento ALPHA, che ha misurato l’accelerazione gravitazionale degli atomi di anti-idrogeno trovandola compatibile con quella dell’idrogeno.
Diversi esperimenti, tra cui ALPHA (Antihydrogen Laser PHysics Apparatus), ASACUSA (Atomic Spectroscopy And Collisions Using Slow Antiprotons) e AEGIS (Antimatter Experiment: Gravity, Interferometry, Spectroscopy) all’AD, sono anche riusciti a sintetizzare atomi di antimateria. Com’è naturale si è scelto di replicare l’atomo più semplice, creando l’anti-idrogeno a partire da positroni e antiprotoni. Come per lo studio dei mesoni K, B e D, l’obiettivo è confrontare il comportamento di particelle e antiparticelle, ma questa volta in processi dominati da forze elettromagnetiche e dalla gravità. Finora non abbiamo osservato discrepanze, ma l’osservazione di una anche minima asimmetria avrebbe profonde conseguenze sulla nostra comprensione delle leggi che governano la natura. Per questo tipo di studi sono sufficienti poche manciate di antiatomi. D’altro canto in circa vent’anni abbiamo prodotto molto meno di un miliardesimo di grammo di anti-idrogeno, e ne siamo riusciti a conservare – al più per qualche ora – una quantità ancora più modesta (vd. Idrogeno allo specchio, ndr).
Poiché nel vuoto antiprotoni, positroni e anti-idrogeno sono stabili (proprio come i protoni, gli elettroni e l’idrogeno), il limite al loro immagazzinamento sta tutto nell’estrema difficoltà di tenerli separati dalla materia (vd. Fabbrica di antiatomi, ndr). Servono una camera in cui realizzare un vuoto molto spinto, e campi elettromagnetici attentamente studiati per evitare che le antiparticelle urtino le pareti del contenitore. Esperimenti come BASE (The Baryon Antibaryon Symmetry Experiment) hanno perfezionato le tecniche di confinamento a tal punto da riuscire a confinare decine di antiprotoni per più di un anno. BASE e un altro esperimento all’AD, PUMA (antiProton Unstable Matter Annihilation), stanno ora sviluppando metodi per il trasporto di piccole quantità di antimateria su lunghe distanze fino a laboratori che non ne producono. Si tratta però di manipolazioni molto delicate: a renderle così impegnative è la stessa asimmetria materia-antimateria che garantisce la nostra esistenza.
Biografia
Simone Stracka è un ricercatore della sezione INFN di Pisa. Ha collaborato agli esperimenti sui mesoni con quark beauty BaBar e LHCb, allo SLAC e al CERN, e attualmente studia le proprietà dell’anti-idrogeno con ALPHA, all’Antiproton Decelerator.