Mal di spazio
La sicurezza nei viaggi spaziali

di Beatrice Fraboni

Samantha Cristoforetti (ultima a destra) è tra i quattro componenti dell’equipaggio che ha volato con Crew-4
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Samantha Cristoforetti (ultima a destra) è tra i quattro componenti dell’equipaggio che ha volato con Crew-4, una delle missioni di Crew Dragon verso la Stazione Spaziale Internazionale. Crew Dragon è la navicella riutilizzabile per il volo umano di SpaceX per la NASA.

L’esplorazione umana dello spazio è una delle sfide e imprese più affascinanti, un motore potente per stimolare e sviluppare la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica. Ma l’ambiente delle radiazioni nello spazio aperto rappresenta un rischio molto più elevato per la salute rispetto a quello determinato dalle radiazioni sulla Terra, a causa dell’assenza dell’effetto schermante offerto dall’atmosfera terrestre. Le radiazioni ionizzanti presenti nello spazio sono considerate dalla NASA uno dei cinque maggiori rischi per la salute da controllare e mitigare per consentire l’esplorazione umana del sistema solare.
La pianificazione di una qualsiasi missione esplorativa umana richiede una solida conoscenza e una efficace mitigazione degli effetti di tali radiazioni e, quindi, un adeguato modello di rischio. L’efficacia del modello di rischio è ancora limitata dalla nostra incompleta comprensione dei meccanismi di interazione delle radiazioni ionizzanti, non solo con i sistemi biologici e con i processi fisiologici, ma anche con i diversi materiali utilizzati per le navicelle spaziali e per le future basi extra-terrestri, che contribuiscono, con i processi di frammentazione, all’ambiente di radiazione cui risultano esposti gli astronauti. Il modello di rischio dovrà utilizzare congiuntamente le informazioni relative alle radiazioni e conoscenze di radiobiologia, che tengano conto dei possibili effetti su diversi organi, genere e storia personale, per produrre un output multiparametrico.
È quindi evidente come sia necessario consolidare e promuovere ricerche in grado di misurare, controllare e mitigare gli effetti dannosi delle radiazioni spaziali sulla salute, includendo approcci diretti sia alla riduzione dell’esposizione alle radiazioni, sia a strategie di mitigazione basate su biologia, farmacologia, fisiologia che portino a una maggiore resilienza umana alle radiazioni. Per consentire una sicura ed efficace esplorazione spaziale umana, non possiamo tuttavia limitarci a mitigare gli effetti delle radiazioni sugli astronauti, ma dovremo estendere lo studio a tutti gli strumenti a supporto della vita nello spazio (p.es. piante, cibo, medicine).

Natura e origine della radiazione spaziale in funzione della distanza dalla superficie della Terrab.
Natura e origine della radiazione spaziale in funzione della distanza dalla superficie della Terra, fino agli habitat di navicelle spaziali utilizzate per l’esplorazione umana. La radiazione spaziale oltre le orbite definite basse (inferiori ai 500 km di quota) non solo può danneggiare la strumentazione elettronica ma costituisce un pericolo serio per gli esseri umani, poiché viene a mancare la protezione del campo magnetico terrestre.
 
La radiazione spaziale è per lo più costituita da galactic cosmic rays (GCR) e da solar particle events (SPE). I primi sono costituiti da ioni di vari elementi, dall’idrogeno al ferro, i cui flussi decrescono per numero atomico maggiore di 26 e le cui energie coprono un intervallo che va da pochi MeV a oltre i TeV, con un picco massimo attorno a 1-2 GeV per nucleo. Gli SPE sono eventi sporadici e brevi (possono durare qualche ora o giorni), ma molto più intensi dei GCR, tipicamente costituiti da protoni con energie di un ordine di grandezza inferiore ai GCR. La principale contromisura a protezione dalla radiazione cosmica durante le missioni spaziali interplanetarie è costituita da schermaggi dedicati, che però producono particelle secondarie. Per poter stimare l’effettivo campo di radiazione presente nell’habitat spaziale (ad es. una navicella o una base lunare) occorre quindi tenere conto sia della modulazione della radiazione primaria indotta da eventuali campi magnetici sia della sua interazione con eventuali spessori di schermaggio, quali le pareti della navicella o le tute spaziali degli astronauti. I prodotti di radiazione secondari così generati sono la sorgente principale del danno biologico da radiazione a cui sono esposte le forme di vita nello spazio e di cui si occupa primariamente la radiobiologia. Gli schermaggi possono essere sia attivi che passivi. Generalmente, gli schermaggi passivi più efficaci sono costituiti da strati di materiali leggeri, altamente idrogenati (ad esempio polietilene). Tuttavia, a causa dell’alta energia delle particelle incidenti e dei processi di frammentazione nucleari che vengono attivati quando esse li attraversano, è necessaria ancora molta ricerca e innovazione nel campo dei materiali leggeri in grado di assorbire efficacemente la radiazione ionizzante. Sono stati studiati anche sistemi di schermaggio attivo, ad esempio campi magnetici attivati ad hoc per deflettere campi intensi di radiazione (ad es. durante un SPE), ma la loro realizzazione richiede ancora lavoro e innovazione tecnologica per ridurre il budget energetico richiesto e il peso del payload (carico da inviare) relativo. Per poter prevedere e attivare contromisure efficaci è prima di tutto necessario conoscere la tipologia, le energie e i flussi della radiazione presente negli habitat extraterrestri in cui si prevede di sostenere vita biologica, e una consistente attività di ricerca si sta occupando di sviluppare rivelatori di radiazione che, oltre a fornire i dati richiesti con la precisione e accuratezza opportuna, soddisfino le stringenti richieste di peso e massa limitata, bassa potenza assorbita e piccole dimensioni. Questo è particolarmente importante per i dosimetri personali necessari per monitorare la dose di radiazione ricevuta da ogni singolo astronauta e che, idealmente, dovrebbero essere sempre indossati nelle mansioni quotidiane. L’esposizione alla radiazione non è infatti isotropa e omogenea all’interno di una medesima navicella spaziale.
Dosimetri personali innovativi, per il monitoraggio in tempo reale, non invasivo e continuativo, della dose ricevuta da membri di equipaggi spazialic.
Dosimetri personali innovativi, per il monitoraggio in tempo reale, non invasivo e continuativo, della dose ricevuta da membri di equipaggi spaziali.
 
L’interesse primario è nello sviluppo di dosimetri personali attivi, ossia in grado di rivelare e trasmettere in tempo reale alla centrale operativa (di terra o della base spaziale) la dose ricevuta da chi li indossa, permettendo di attivare un allarme immediato in caso di sovraesposizione. Tipicamente tali rivelatori sono a base di materiali semiconduttori, in grado di convertire direttamente la radiazione ionizzante in un segnale elettrico di output. Recenti ricerche, al centro delle attività sviluppate nel progetto IRIS, finanziato dall’ASI coordinato dall’INFN, hanno mostrato le interessanti potenzialità di dosimetri personali realizzati a base di semiconduttori innovativi (organici e “perovskiti”, ovvero minerali composti da ossidi di due metalli che assumono una particolare struttura cristallina) che possono rivelare fotoni e protoni di alta energia anche in forma di film sottili (nano-micrometrici). Tali film possono essere depositati da una soluzione (a stampa inkjet) su substrati non convenzionali, quali plastica o tessuti, realizzando rivelatori ultrasottili e flessibili, anche su una larga area a forma di matrici pixellate, che garantiscono un peso e un volume estremamente ridotto rispetto ai semiconduttori tradizionali e che potranno essere utilizzati per un monitoraggio in-situ dell’esposizione di organi particolarmente delicati. La densità e la composizione chimica dei semiconduttori organici li rende inoltre equivalenti al tessuto umano , una proprietà preziosa per i materiali attivi nei dosimetri elettronici, per i quali non sarà più necessario effettuare delicate calibrazioni a valle della misura. La bassissima potenza richiesta (possono anche operare in modo completamente passivo) offre un ulteriore significativo vantaggio per il payload e per la sicurezza dell’equipaggio spaziale, che potrà indossarli impercettibilmente per tutto il tempo di permanenza in habitat extraterrestre, tenendo monitorata in tempo reale la dose di radiazione ricevuta. Grazie agli studi effettuati fino ad oggi è stato possibile raggiungere traguardi impensabili qualche decennio fa, ma ancora tanta stimolante ricerca ci aspetta per poter rendere sicura l’esplorazione umana nello spazio.
 

Biografie
Beatrice Fraboni è professoressa di fisica all’Università di Bologna, dove coordina un gruppo di ricerca attivo nello studio di semiconduttori funzionali innovativi per rivelatori di radiazione ionizzante. Autrice di oltre 200 articoli scientifici e titolare di 15 brevetti, ha coordinato vari progetti europei e nazionali e coordina il progetto IRIS.

 

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DOI: 10.23801/asimmetrie.2023.34.10
 

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