Sotto questo Sole
I neutrini della nostra stella
di Gianpaolo Bellini
Le varie componenti del flusso dei neutrini solari (a sinistra) e le reazioni nucleari che le producono (a destra). I flussi di neutrini sono indicati in cm−2s−1MeV−1, fatta eccezione per le linee verticali (in viola e in celeste), i cui valori sono espressi in cm-2s-1.
Nel fenomeno dell’oscillazione dei neutrini la probabilità che un neutrino passi da un tipo a un altro aumenta con la distanza fra la sorgente e il rivelatore e si riduce con il diminuire dell’energia dei neutrini. I neutrini solari hanno energie molto basse, anche di pochi keV, e, se studiati dalla Terra, percorrono una distanza fra punto di produzione e rivelatore di circa 150 milioni di chilometri: sono quindi lo strumento ideale per studiare il fenomeno dell’oscillazione (vd. Trasformisti all'opera, ndr). Il modello solare standard (Solar Standard Model, Ssm), sviluppato in quarant’anni a partire dall’inizio degli anni ’60 del secolo scorso da John N. Bahcall insieme ad altri collaboratori, descrive il Sole a partire da quando era una protostella in contrazione e segue la sua evoluzione fino alla fase di equilibrio fra compressione esercitata dalle forze gravitazionali e pressione interna, mantenuta dall’alta temperatura. Il modello riesce a riprodurre correttamente il raggio e la luminosità del Sole (cioè l’energia irraggiata per unità di tempo) e il rapporto fra le abbondanze degli elementi più pesanti dell’idrogeno e l’idrogeno stesso, sulla superficie del Sole. L’energia solare è prodotta da un insieme di reazioni nucleari che avvengono nel nucleo del Sole e sono raggruppate in un ciclo, ipotizzato già negli anni ’30 del secolo scorso da George Gamow e Carl Friedrich von Weizsäcker, che viene detto “catena protone-protone” o “pp” e che produce il 99% dell’energia solare. Cinque delle reazioni di questo ciclo emettono neutrini elettronici, con energie comprese tra pochi keV e 16 MeV, dei quali l’Ssm predice i flussi sulla Terra. Poiché i neutrini interagiscono molto debolmente con la materia e quindi le interazioni nel rivelatore sono rare, tutti gli esperimenti sui neutrini solari sono eseguiti in laboratori sotterranei per schermarsi dai raggi cosmici, che altrimenti maschererebbero i segnali prodotti dai neutrini.
Vista dell’esterno della grande sfera dell’esperimento Borexino, allestito nella sala C dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn.
I primi due esperimenti sui neutrini solari, Homestake e Gallex, fra gli anni ’60 e ’90 del secolo scorso, misurarono il flusso dei neutrini solari, ma senza distinguere fra le varie reazioni che li producevano. Essi diedero origine al cosiddetto “problema dei neutrini solari”, perché trovarono un netto deficit nel flusso, rispetto alle previsioni dell’Ssm. Le reazioni osservate da questi due esperimenti, per via del metodo di rivelazione utilizzato, potevano essere prodotte solo da neutrini elettronici. La ragione di questo deficit rimase un puzzle irrisolto finché, nella prima decade del secondo millennio, l’esperimento Sno (Sudbury Neutrino Observatory), misurò contemporaneamente e in tempo reale (cioè nel momento nel quale le interazioni avvengono) sia le reazioni prodotte solo dai neutrini elettronici sia quelle prodotte dai neutrini di tutti i tre sapori, osservando, in quest’ultimo caso, un flusso uguale a quello previsto dall’Ssm. Il problema quindi era da collegarsi alle oscillazioni dei neutrini elettronici, emessi dal Sole, in neutrini di altro sapore nel tragitto fra l’interno del Sole e la Terra. Sno misurava solo lo 0,1% di tutto il flusso solare, cioè una coda di alta energia dei neutrini emessi da una reazione della fase finale della catena pp, la reazione del boro 8. Nei primi anni ’90 si progettò nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso l’esperimento Borexino, capace di misurare separatamente i flussi di neutrini delle varie reazioni nucleari che avvengono nel Sole, coprendo praticamente tutto lo spettro di energia dei neutrini solari. Il problema chiave era l’abbattimento della radioattività naturale, sia dei materiali per la costruzione sia proveniente dalle rocce e dall’ambiente circostante. In cinque anni di ricerca e sviluppo, tra il 1990 e il 1995, si svilupparono metodi innovativi per la riduzione drastica della radioattività, che applicati alla parte attiva dell’apparecchiatura (che rivela le interazioni di neutrini), hanno prodotto una radiopurezza mai raggiunta da nessun altro esperimento, né prima né dopo Borexino: circa 1 grammo di impurezza ogni 1019 grammi di sostanza pura. Le radiazioni provenienti dall’ambiente sono schermate da 2400 tonnellate di acqua ultra-pura. La costruzione del rivelatore ha richiesto una decina d’anni, perché niente è standard in Borexino: tutti i materiali sono stati selezionati fra quelli aventi la più bassa radioattività e misurati con rivelatori al germanio di alta sensibilità, i componenti sono stati costruiti o fatti costruire ad hoc, l’assemblaggio è avvenuto utilizzando cinque camere pulite, e infine lo stesso rivelatore è stato equipaggiato per essere una camera pulita. La raccolta dei dati delle interazioni di neutrini è iniziata nel 2007 e da allora i successi ottenuti da questo esperimento sono stati molteplici. Si sono misurati i neutrini provenienti da tutte le reazioni nucleari che avvengono nel Sole e che, insieme alle altre della catena pp, producono il 99% di tutta l’energia solare. In questo modo si è dimostrato che il Sole brilla a causa di una reazione esotermica di fusione di quattro nuclei di idrogeno che formano un nucleo di elio, reazione che riassume tutto il ciclo. Da un confronto fra la luminosità dei neutrini e quella dei fotoni, si è constatato che negli ultimi 100.000 e più anni l’energia solare non è cambiata: ciò è stato possibile perché i neutrini impiegano pochi secondi a uscire dal Sole, mentre i fotoni vi impiegano più di 100.000 anni, subendo vari processi di assorbimento e riemissione nella materia solare. La misura delle reazioni della catena pp, da 150 keV fino a 16 MeV, ha permesso anche di osservare l’oscillazione del neutrino elettronico nel vuoto e di misurarne la probabilità di sopravvivenza nell’intero intervallo di energia.
I geoneutrini
L’interno della Terra è composto da vari strati, un po’ come una cipolla: la parte più profonda è costituita da un nucleo, con una parte interna solida e una più esterna liquida, seguita da un mantello, anch’esso suddiviso in due parti, e infine una crosta sulla cui parte esterna poggiamo i nostri piedi (vd. fig. 1). La roccia che compone questi strati contiene nuclei instabili come isotopi di potassio, torio e uranio (40K, 232Th e 238U): nel decadimento di questi radionuclidi viene emessa una frazione importante del calore presente nelle profondità della Terra, ma misurare con precisione quanto calore provenga da questi decadimenti nucleari è molto difficile in quanto non si possono fare misure dirette oltre una certa profondità. Qui è d’aiuto il neutrino: i decadimenti di uranio, torio e potassio producono anche antineutrini, i quali, viaggiando indisturbati fino alla superficie, possono fornire informazioni dirette sui processi che avvengono in profondità. Essendo prodotti nelle viscere della Terra, sono chiamati geoneutrini. L’idea di usare i geoneutrini per studiare l’interno della Terra risale agli anni ’60 del secolo scorso, ma la possibilità di osservarli ha richiesto lo sviluppo di rivelatori estremamente sensibili e capaci di misurare flussi molto deboli di neutrini dotati di pochi MeV di energia: Kamland in Giappone e soprattutto Borexino ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso. Con una campagna di osservazioni tra il 2007 e il 2019, Borexino ha misurato 53 geoneutrini prodotti dal decadimento di 232Th e 238U presenti nel mantello terrestre: questo ha permesso di determinare per la prima volta e con grande precisione che il calore terrestre è prodotto in larga parte proprio dai decadimenti radioattivi e di quantificare la potenza di questa emissione. Questi risultati, che stabiliscono l’abbondanza di uranio e torio nel mantello terrestre, aprono nuovi scenari nello studio della geochimica terrestre e permettono di comprendere come una parte non trascurabile dell’energia che alimenta vulcani, terremoti e il campo magnetico terrestre sia prodotta dalla radioattività. [Nicolao Fornengo]
Biografia
Gianpaolo Bellini, è professore emerito all’Università di Milano e scienziato emerito dell’Infn. Fisico delle particelle, ha diretto esperimenti in tutti i maggiori centri di ricerca del mondo. La sua lunga carriera scientifica è stata coronata da prestigiosi premi, tra cui il premio internazionale Bruno Pontecorvo nel 2015 e il premio Enrico Fermi nel 2017.