[as] radici
Via Panisperna 89, Roma.

di Giovanni Battimelli, professore di Storia della Fisica all’Università di Roma La Sapienza

Nel settembre del 1931 si tiene a Roma un Congresso Internazionale di Fisica Nucleare, cui partecipano praticamente tutti i fisici che nel mondo sono coinvolti nelle ricerche su quella che è diventata la frontiera della fisica fondamentale. Si tratta del primo convegno specificamente dedicato al problema della fisica del nucleo atomico, e può a prima vista apparire strano che un evento simile si tenga a Roma anziché in una delle capitali storiche della ricerca in fisica atomica: Berlino, Parigi, Cambridge o Copenhagen. Ma a Roma le cose sono cambiate in modo radicale rispetto ai primi decenni del secolo, grazie all’arrivo nel 1927 di Enrico Fermi e alla formazione, intorno a lui, di un agguerrito gruppo di giovani riercatori. Ed è proprio sul terreno della nascente fisica del nucleo che questo gruppo dà i suoi primi contributi di rilievo.
Nel 1929 Franco Rasetti prova, grazie ad un raffinato esperimento di spettroscopia, che le proprietà dell’atomo di azoto sono incompatibili con il modello allora dominante, secondo cui il nucleo atomico è composto da una zuppa di protoni ed elettroni. All’epoca, il neutrone non è stato ancora scoperto, e d’altra parte l’emissione di elettroni dai nuclei degli elementi radioattivi nel cosiddetto decadimento beta sembra suggerire in modo naturale che gli elettroni debbano essere particelle costituenti dei nuclei stessi. I risultati di Rasetti mostrano però che qualcosa in questo modello non funziona, e sono uno dei principali argomenti di discussione al congresso di Roma. La chiave per la soluzione del problema arriva nel 1932 con la scoperta del neutrone, che porta alla formulazione del modello del nucleo composto da protoni e neutroni. L’anomalia messa in luce da Rasetti viene così risolta, ma si aprono nuove questioni. Come sono fatte le forze che tengono insieme protoni e neutroni nel nucleo? E da dove vengono gli elettroni emessi dai nuclei nel decadimento beta? Nel periodo immediatamente successivo, ancora i fisici di Roma danno le prime risposte a questi interrogativi. Tra il 1933 e il 1934 Ettore Majorana, stimolato anche dall’apprezzamento di un’autorità come Heisenberg, elabora e pubblica un fondamentale lavoro sulle forze nucleari, ed Enrico Fermi costruisce nello stesso periodo una teoria del decadimento beta che introduce un’idea radicalmente innovativa: nei processi nucleari le particelle possono essere create e distrutte, analogamente a quanto accade a un quanto di luce durante una transizione di un elettrone in un atomo tra due orbite stazionarie. La nozione stessa di “particella elementare” subisce un drastico mutamento di significato.

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Da destra verso sinistra: Enrico Fermi, Giancarlo Wick e Edoardo Amaldi, con le rispettive famiglie a Ostia nel 1936.
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Da sinistra: Antonio Rostagni, Gleb Wataghin, Enrico Persico, Enrico Fermi, Matilde Rostagni. Gressoney, La Trinitè, dicembre 1932.

Nell’opinione di molti, a cominciare dallo stesso Fermi, la teoria del decadimento beta è il più significativo tra i tanti contributi alla fisica dati dal fisico romano. Tuttavia, la fama di Fermi presso il grande pubblico è legata piuttosto alle ricerche sperimentali da lui condotte nel 1934, prima da solo e poi in collaborazione con i più giovani colleghi dell’istituto di fisica romano, sui fenomeni di radioattività artificiale indotti nei nuclei bombardati con neutroni. è il periodo, breve ma intenso, in cui si origina la saga dei “ragazzi di via Panisperna”, e indiscutibilmente grazie a queste ricerche Roma diventa un punto di riferimento per la comunità internazionale dei fisici. La scoperta dell’efficacia dei neutroni lenti nell’attivazione dei nuclei, che avviene nell’ottobre del 1934, e di cui Fermi fornisce rapidamente l’interpretazione teorica, corona un felice periodo di ricerca e giustifica ampiamente il riconoscimeno che a Fermi sarà dato nel 1938 con l’attribuzione del premio Nobel.
Da Fermi e Rasetti a Majorana e al gruppo dei “ragazzi” (Amaldi, Segrè, Pontecorvo, D’Agostino), la nascita della fisica nucleare è dunque largamente segnata dai contributi di una scuola formatasi e cresciuta in brevissimo tempo apparentemente dal nulla. In realtà, dietro questo successo c’è un sostegno istituzionale e una lungimirante politica della ricerca, ad opera della Facoltà di Scienze di Roma e in particolare dell’allora direttore dell’istituto di fisica (nonché senatore, ex ministro, accorto consulente dell’industria elettrica) Orso Mario Corbino. La storia di questi brevi anni della fisica romana è istruttiva anche perché mostra come i talenti individuali possano esprimersi al meglio se opportunamente coltivati e messi in condizione di operare in un ambiente adeguato.
C’è però anche il lato oscuro della storia. Il 1934 segna il culmine della parabola ascendente del gruppo dei fisici romani. Nella seconda metà degli anni Trenta, le cose si muovono in fretta nel campo della fisica nucleare; non cambiano solo le idee, ma anche le tecniche utilizzate, la strumentazione disponibile, il sostegno finanziario necessario. Arrivano sulla scena i primi acceleratori, che mandano in cantina le vecchie e primitive sorgenti naturali di particelle energetiche. E allo stesso tempo, in Italia e a Roma cambiano, ma vanno in direzione opposta, l’attenzione e l’impegno istituzionale verso i settori della ricerca fondamentale. Fermi non riesce a realizzare un laboratorio nazionale per la fisica nucleare, il gruppo si disperde; le leggi razziali e l’involuzione generale della situazione italiana e del panorama internazionale faranno il resto. Quando alla fine del 1938 Fermi va a Stoccolma a ritirare il Nobel, sa che si tratta della prima tappa di un viaggio senza ritorno. Le menti brillanti da sole non bastano, senza il necessario supporto istituzionale. Per la fisica nucleare italiana, costruire in modo stabile questo supporto sarà il compito principale degli anni del dopoguerra.



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