L’uranio che scalda la Terra
Capostipite di una serie di importanti processi radioattivi
di Fabio Mantovani
I coniugi Curie hanno dedicato la loro vita allo studio della radioattività del radio e del polonio, radionuclidi prodotti nella catena di decadimento dell’uranio.
Qual è l’elemento naturale con il numero atomico più grande nella tavola periodica? A scuola impariamo che la risposta è “l’uranio”. La peculiarità di questo elemento di innescare catene di scissioni e trasformazioni ha stimolato nell’ultimo secolo straordinari progressi scientifici, non solo in fisica nucleare e subnucleare, ma anche in astrofisica, nelle scienze della Terra e dell’ambiente. Gli studi sulla radioattività del radio e del polonio realizzati dai coniugi Curie, la messa a punto di sistemi di datazione radiometrica uranio-piombo, la caratterizzazione degli effetti del radon sulla salute dell’uomo, l’impiego della fissione dell’uranio per la produzione di energia, lo studio delle implicazioni del calore radiogenico terrestre sull’evoluzione della Terra, nonché le recenti misure dei geoneutrini realizzate dagli esperimenti Borexino e Kamland sono solo alcune delle conquiste scientifiche e tecnologiche legate all’uranio e ai suoi prodotti di decadimento.
I due isotopi di origine primordiale dell’uranio, l’uranio-238 (238U) e l’uranio-235 (235U), sono presenti con le stesse abbondanze relative su tutta la Terra, rispettivamente del 99,3 % e dello 0,7 %: il fatto che queste siano state misurate anche su campioni di meteoriti “condritiche”, risalenti alla formazione del Sistema Solare, è considerata una delle principali prove che tutti i pianeti sono stati originati da un unico disco protoplanetario. Al momento della sua formazione, circa 4,5 miliardi di anni fa, la Terra conteneva più uranio di quanto non ne contenga oggi. La metà dell’uranio-238 primordiale e la maggior parte dell’uranio-235 sono decaduti, rilasciando energia termica che ha contribuito a sostenere energeticamente la tettonica delle placche, i processi geodinamici e il campo magnetico terrestre durante l’evoluzione del nostro pianeta.
In che misura il calore “radiogenico” dovuto alla radioattività dell’uranio contribuisce agli odierni 47 TW di potenza termica terrestre? Se conoscessimo quanto uranio è contenuto in tutta la Terra, si potrebbe non solo rispondere a questa domanda, ma anche comprendere meglio il bilancio energetico della Terra, nonché le condizioni termiche di formazione dei pianeti rocciosi. Tuttavia, la differenziazione degli elementi nel nucleo, mantello e crosta terrestri ha favorito una distribuzione disomogenea dell’uranio, impedendo finora una misura diretta su scala globale.
Una possibilità di misurare direttamente la quantità di uranio presente nel nostro pianeta, e quindi il suo contributo radiogenico al calore terrestre, è rappresentata dai geoneutrini, ovvero gli antineutrini prodotti dai decadimenti beta dei nuclei radioattivi naturali contenuti nella Terra, fra cui i più importanti sono quelli appartenenti alla catena di decadimento dell’uranio-238. Nel 2005 i geoneutrini sono stati osservati per la prima volta dall’esperimento Kamland in Giappone e quindi confermati dall’esperimento Borexino, presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso. La bassissima probabilità di interazione tra gli antineutrini e i nuclei di idrogeno degli idrocarburi liquidi utilizzati per la loro rivelazione (Borexino misura un geoneutrino circa ogni quattro mesi) rendono queste misure ancora troppo incerte per poter porre dei vincoli stringenti ai modelli che stimano il calore radiogenico prodotto dall’uranio in un intervallo compreso tra 5 TW e 13 TW. Con l’integrazione dei dati raccolti dai rivelatori Sno+ (Canada) e Juno (Cina), attesi per il prossimo decennio, la possibilità di stimare la massa di uranio presente sulla Terra diventerà più concreta.
Oltre a innescare una catena di decadimenti, il nucleo di uranio può rompersi spontaneamente in due parti, dando origine alla cosiddetta “fissione spontanea”. Sebbene sia un evento molto raro (la probabilità per un nucleo di uranio-238 è inferiore a uno su 100 milioni) è possibile osservarne le tracce in alcuni minerali come gli zirconi. Il processo di fissione può innescare una reazione a catena che produce una notevole quantità di energia: in prossimità del fiume Oklo (Gabon) nel 1972 è stato ritrovato l’unico reattore nucleare naturale al mondo. Attivatosi circa 2 miliardi di anni fa, ha funzionato per qualche centinaia di anni scaldando la roccia circostante fino a circa 450 gradi centigradi.
Nel 1934 i “ragazzi di via Panisperna”, guidati da Enrico Fermi, realizzarono la prima fissione artificiale di nuclei di uranio utilizzando neutroni. Questi pioneristici esperimenti segnarono l’inizio dell’era della fissione nucleare per la produzione di energia elettrica e di armamenti nucleari. Nel 2016 i 451 reattori nucleari operativi in tutto il mondo hanno prodotto circa 0,4 TW di potenza elettrica, sufficiente per il fabbisogno di circa 400 milioni di persone. L’uranio, pertanto, è una fonte di energia non solo per il pianeta Terra, ma anche per l’umanità che lo abita.
La struttura interna dell’esperimento Borexino, grazie al quale è stato possibile misurare i geoneutrini prodotti dall’uranio presente nella Terra.
Nell’ultimo decennio l’Infn ha sviluppato tecnologie all’avanguardia nel settore della spettroscopia gamma a bordo di velivoli nell’ambito del progetto Italrad, che ha permesso di realizzare le mappe della distribuzione di uranio e degli altri radionuclidi naturali (il torio-232, 232Th, e il potassio-40, 40K) nelle rocce e nel suolo delle regioni Veneto, Toscana e Umbria. La conoscenza della distribuzione di uranio nel territorio italiano si sta rivelando utile non tanto per l’esplorazione mineraria, quanto per una miglior conoscenza del territorio a supporto anche della salute pubblica. Per esempio, grazie allo sviluppo di hardware e software dedicati, è stato possibile stimare la dose efficace assorbita dalla popolazione della regione Umbria all’aria aperta, oppure comprendere i processi magmatici che hanno arricchito in uranio alcuni graniti nel nord della Sardegna utilizzati come materiali da costruzione.
Non va dimenticato che circa il 40% della dose efficace di radioattività assorbita da un essere umano che vive in un paese industrializzato è dovuta al radon, un gas radioattivo, inerte, inodore e incolore prodotto nella catena di decadimento dell’uranio. L’esalazione del radon da una roccia, un suolo o un materiale da costruzione, oltre a dipendere dall’abbondanza di uranio, è influenzata dalla porosità e dal contenuto d’acqua del materiale. Indubbiamente una cartografia della distribuzione di uranio nel territorio italiano è uno strumento fondamentale per la prevenzione del rischio radon e una miglior pianificazione territoriale.
L’uranio rimane un elemento ricco di fascino, ultimo tra gli elementi naturali della tavola periodica, ma capostipite di una serie di processi radioattivi associati spesso a problemi scientifici interdisciplinari e fortemente legati alla vita dell’uomo.
Biografia
Fabio Mantovani è professore presso l’Università di Ferrara dove coordina il laboratorio di tecnologie nucleari applicate all’ambiente. Coinvolto in esperimenti di fisica del neutrino, sviluppa progetti di ricerca nazionali e internazionali per lo studio della radioattività naturale e per l’educazione scientifica.
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