Mele, ascensori e buchi neri
La gravità da Einstein in poi
di Paolo Pani
Perché gli oggetti cadono? Per millenni questa domanda, solo all’apparenza banale, ha tenuto impegnate le menti più brillanti, spingendole a formulare teorie della gravità (dal latino gravitas, peso) sempre più sofisticate e le cui predizioni sono tanto accurate quanto incredibili. È infatti stupefacente come un fenomeno che ben conosciamo fin dall’infanzia (l’attrazione gravitazionale) sia lo stesso alla base del Big Bang, dell’evoluzione dell’universo, dei buchi neri, delle onde gravitazionali e di alcuni dei più importanti problemi aperti della fisica fondamentale. Ma facciamo un passo indietro. Secondo Aristotele il moto dei corpi era riconducibile alla tendenza degli stessi a muoversi verso il loro luogo “naturale”. Tale visione fu soppiantata soltanto grazie agli studi di Galileo Galilei, il quale identificò una proprietà degli oggetti (quella che oggi chiamiamo “massa inerziale”) che ne determina la resistenza a modificare il proprio stato di moto o di quiete. Una generazione più tardi, Isaac Newton formalizzò questi concetti nella sua teoria della meccanica, secondo cui la massa inerziale è la costante di proporzionalità fra la “forza” che agisce su un corpo e la sua accelerazione. Newton si spinse oltre e identificò nella “forza gravitazionale” la causa dell’attrazione terrestre su tutti i corpi, dalla celebre mela (che, secondo una leggenda, gli sarebbe caduta sulla testa) alla Luna, nonché dell’attrazione universale reciproca fra tutti i corpi celesti. Secondo Newton due oggetti qualsiasi si attraggono in maniera proporzionale alle loro masse (quelle che oggi chiamiamo “masse gravitazionali”) e in maniera inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Fu una rivoluzione. Questa semplice teoria, unita alla meccanica, forniva una descrizione incredibilmente precisa di tutti i fenomeni gravitazionali: il moto della Luna attorno alla Terra, le eclissi, le maree, le leggi empiricamente scoperte da Keplero per il sistema solare, il moto dei proiettili e dei satelliti. C’erano però due grandi questioni in sospeso nella teoria della gravitazione di Newton. Una era palese fin dagli albori: come i famosi esperimenti di Galileo dalla torre pendente avevano dimostrato, dal punto di vista sperimentale la massa “inerziale” e quella “gravitazionale” sono identiche. Perché due concetti così diversi (inerzia e gravità) fossero in realtà collegati fra loro rimaneva un mistero. Il secondo problema fu posto più tardi da Albert Einstein quando, nel suo annus mirabilis (1905), formulò la teoria della relatività speciale, il cui caposaldo è la costanza della velocità della luce nel vuoto e il fatto che essa sia la velocità massima raggiungibile in natura.
Il padre della relatività generale, Albert Einstein, fotografato nel suo studio a Berlino di fronte al ritratto di Newton alla parete (1927).
La relatività speciale trovò immediatamente svariate conferme sperimentali, ma era in netto contrasto con la teoria di Newton in cui l’interazione gravitazionale si propaga a velocità infinita. Einstein prese in maniera estremamente seria questi problemi (per molti al tempo considerati marginali) e gli ci vollero dieci anni di intensissimo lavoro per arrivare al suo capolavoro: la teoria generale della relatività. Come spesso nei lavori di Einstein, la relatività generale si erge su alcuni principi, ovvero degli assiomi teorici basati su osservazioni empiriche. Superando il concetto galileiano di sistema inerziale, Einstein postulò che tutte le leggi della fisica debbano essere le stesse a prescindere dal moto dell’osservatore (ossia per qualsiasi sistema di riferimento). Inoltre, partendo dalle osservazioni di Galileo, formulò il “principio di equivalenza”, secondo il quale la massa inerziale e la massa gravitazionale non sono accidentalmente uguali o molto simili, ma sono proprio la stessa grandezza fisica. Questi semplici principi hanno conseguenze notevolissime, come il fatto (abilmente spiegato da Einstein con l’ “esperimento mentale” dell’ascensore vd. fig. b) che sia impossibile distinguere localmente se un sistema è soggetto all’attrazione gravitazionale o se si sta muovendo di moto accelerato.
Nel suo famoso esperimento mentale dell’ascensore, Einstein dimostrò che, per un osservatore dentro un ascensore in moto accelerato nel vuoto (riquadro in alto a destra), gli oggetti cadono come se fossero soggetti alla forza gravitazionale terrestre in un ascensore fermo (riquadro in alto a sinistra). Le due situazioni sono indistinguibili. Allo stesso modo, è impossibile distinguere fra il caso in cui l’ascensore è in caduta libera nel campo gravitazionale terrestre (riquadro in basso a sinistra) e quello in cui si trova a riposo nello spazio vuoto (riquadro in basso a destra). Il ragionamento dimostra che, a causa dell’uguaglianza fra massa gravitazionale e massa inerziale, l’attrazione gravitazionale è localmente eliminabile in un opportuno sistema di riferimento. Questo è il contenuto del principio di equivalenza tra gravitazione e inerzia, alla base della teoria della relatività generale.
Illustrazione artistica (opera di Alessandro Nagar) delle equazioni di Einstein della relatività generale e dello slogan di Wheeler. Lo spaziotempo (rappresentato dal tensore di Einstein in blu, a sinistra del segno di uguaglianza) determina come la materia (rappresentata dal tensore di energia-impulso a colori, a destra del segno di uguaglianza) si muove. A sua volta, la materia deforma lo spaziotempo producendo un’interazione simbiotica fra materia e spaziotempo, che è il vero cuore della teoria.
Ci sono però situazioni in cui la curvatura dello spaziotempo può essere estrema: in quel caso la relatività generale diventa imprescindibile. Il suo primo ambito di applicazione è la cosmologia. Prima di Einstein l’origine dell’universo era un argomento filosofico (e teologico). Ma l’universo nel suo insieme può essere descritto, nel contesto della relatività generale, come spaziotempo che evolve in rapporto alla materia (visibile e invisibile) e alla radiazione in esso contenute, partendo da una configurazione iniziale di densità e curvatura spaziotemporale elevatissime (il Big Bang). Inoltre, l’attuale espansione accelerata dell’universo (la cui osservazione valse il Nobel per la fisica a Saul Perlmutter, Brian Schmidt e Adam Riess nel 1999) è spiegata dalla relatività generale tramite un termine legato alla famosa costante cosmologica. Inizialmente introdotta da Einstein, il quale poi la rinnegò come uno dei suoi più grandi errori, questa costante è attualmente un ingrediente fondamentale del modello standard cosmologico che, nonostante gli enormi successi osservativi, è oggi al centro di un importante dibattito proprio legato alla velocità di espansione dell’universo e all’origine della costante cosmologica (vd. Alta tensione, ndr). Un altro contesto in cui la relatività generale ha un ruolo determinante è quello delle stelle compatte. Se è vero che il Sole distorce poco lo spaziotempo, cosa succederebbe se tutta la sua massa fosse compressa in una stella molto più piccola e densa? In quel caso la curvatura dello spaziotempo sarebbe molto maggiore e fenomeni come la deflessione della luce e la dilatazione gravitazionale del tempo sarebbero enormemente amplificati. Ad esempio, potrebbe succedere che la luce venga deflessa a tal punto da rimanere intrappolata nel campo gravitazionale della stella. Una stella di questo tipo non potrebbe emettere nessun tipo di radiazione e apparirebbe come un “buco nero” nel cielo. Inoltre, essendo la velocità della luce la massima possibile in natura, qualsiasi cosa che entri dentro questo buco nero (superando quella regione di non-ritorno nota come l’orizzonte degli eventi) ne verrebbe inghiottita per sempre e non potrebbe più comunicare con l’esterno. L’esistenza dei buchi neri è un’altra grande predizione teorica della relatività generale. Considerati per decenni come mere curiosità matematiche, oggi si pensa che praticamente ogni galassia ospiti un buco nero di milioni o miliardi di masse solari con il quale evolve in simbiosi. Attorno a questi mostri cosmici, la materia e la luce sono fortemente deflesse. Questo fenomeno è alla base delle complesse orbite stellari attorno al buco nero Sagittarius A* al centro della Via Lattea (la cui scoperta è stata premiata col Nobel per la Fisica 2020 assegnato a Reinhard Genzel e Andrea Ghez) e dell’ormai celebre “fotografia” del buco nero nella galassia M87 “scattata” dall’Event Horizon Telescope (vd. Uno sguardo all'orizzonte, ndr). Inoltre, a partire dai pionieristici lavori di Subrahmanyan Chandrasekhar, sappiamo che i buchi neri si formano al termine dell’evoluzione di stelle molto massicce, che collassano sotto l’azione della loro stessa attrazione gravitazionale. Questi buchi neri hanno una massa che varia da poche fino a decine di masse solari, anche se recenti osservazioni sembrano riservare qualche sorpresa (vd. Mind the gap, ndr).
d.
L’astrofisica Andrea Ghez mostra la medaglia del Premio Nobel per la Fisica che le è stato assegnato nel 2020 per i suoi studi delle orbite stellari attorno al buco nero Sagittarius A* al centro della Via Lattea. A causa della pandemia da coronavirus, Ghez non ha potuto recarsi alla tradizionale cerimonia a Stoccolma e ha ricevuto la medaglia dal console svedese a Los Angeles.
Ma come può essere “osservato” un oggetto che per definizione inghiotte tutto, anche la luce? Oltre allo studio delle orbite (come nel caso di Sagittarius A*) o della materia calda che ci cade dentro (come nel caso della foto di M87), la possibilità di “vedere” i buchi neri è fornita da un’ulteriore strabiliante predizione di Einstein: le onde gravitazionali (vd. Asimmetrie n. 5, ndr). Queste increspature dello spaziotempo vengono generate da grandi masse in movimento, in maniera analoga a come un motoscafo genera onde nel mare, o a come cariche elettriche accelerate generano onde elettromagnetiche, e si propagano alla velocità della luce. Qualsiasi massa in movimento accelerato genera onde gravitazionali, ma queste sono solitamente troppo deboli per poter essere osservate. La collisione cosmica di due buchi neri, invece, genera un’enorme potenza (pari circa ad un miliardo di milioni di volte la potenza del Sole) e le onde gravitazionali così prodotte si propagano indisturbate per miliardi di anni luce. La prima onda gravitazionale prodotta dalla fusione di due buchi neri è stata captata sulla Terra il 14 settembre 2015 dalla collaborazione Ligo-Virgo ed è stata chiamata GW150914 (che sta per “gravitational wave” del 14-09-15). Questo evento storico ha segnato l’inizio di nuova astronomia attualmente in piena espansione. Negli ultimi 5 anni, gli interferometri laser Ligo e Virgo hanno captato circa 50 segnali prodotti dalla fusione di buchi neri e stelle di neutroni. Almeno per uno di essi (la fusione di due stelle di neutroni) è stato possibile osservare in coincidenza una serie di segnali elettromagnetici, dando così vita all’astronomia multimessaggera (vd. Asimmetrie n. 25, ndr). Queste osservazioni richiedono strumenti precisissimi e una perfetta conoscenza teorica del segnale atteso, che può essere ottenuta con una sofisticata combinazione di simulazioni numeriche e calcoli teorici, entrambi basati sulle equazioni di Einstein (vd. Paso doble, ndr). La rivelazione delle onde gravitazionali è così un’ulteriore conferma della relatività generale ed è stata premiata col Nobel per la fisica a Rainer Weiss, Barry Barish e Kip Thorne nel 2017.
Scommesse
La goliardica scommessa fra Stephen Hawking e Kip Thorne sulla natura di Cygnus X-1. Stipulata nel 1974, la scommessa fu vinta da Thorne solo alcuni decenni dopo, quando Hawking ammise che le evidenze osservative a favore dell’ipotesi di buco nero erano ormai schiaccianti.
La storia delle ricerche teoriche e osservative sui buchi neri è costellata di aneddoti interessanti, a partire dall’origine di questi oggetti e dal loro nome. La prima soluzione esatta della relatività generale, che descrive un buco nero, si deve al tedesco Karl Schwarzschild, il quale la scoprì nel 1916 (pochi mesi dopo la pubblicazione della teoria da parte di Einstein), mentre si trovava al fronte russo durante la prima guerra mondiale. Tuttavia, soltanto decenni dopo la scoperta di Schwarzschild si iniziò a utilizzare il termine “buco nero” (in inglese black hole) per descrivere questi oggetti e studiarne in dettaglio le caratteristiche. Per decenni si è attribuita la paternità del nome all’eminente fisico statunitense John Archibald Wheeler, che la utilizzò in un articolo divulgativo del 1968. Tuttavia, è ormai appurato che qualche anno prima Robert Dicke (famoso fisico e collega di Wheeler a Princeton) iniziò a paragonare il collasso gravitazionale di una stella a una terribile e angusta prigione indiana del XVIII secolo colloquialmente chiamata “Buco nero di Calcutta”. Almeno fino agli anni ’60 i buchi neri vennero considerati soluzioni matematiche delle equazioni di Einstein, troppo bizzarre per poter avere un’attinenza con la realtà. La situazione iniziò a mutare con la scoperta delle prime quasar e delle sorgenti astrofisiche di raggi X, fra cui Cygnus X-1, scoperto nel 1964. La natura di Cygnus X-1 è stata oggetto di una scommessa scherzosa tra i fisici Stephen Hawking e Kip Thorne (vd. fig. 1), nella quale il primo scommise che la sorgente non fosse originata da un buco nero. Dopo decenni di incertezze, Hawking dichiarò di aver perso la scommessa quando, a partire dagli anni ’90, i dati osservativi confermarono che Cygnus X-1, come molti altri oggetti astrofisici compatti, è proprio un buco nero come previsto dalla relatività generale.
Tutte queste osservazioni stanno aprendo confini finora inesplorati e potrebbero stravolgere intere aree dell’astrofisica, della cosmologia e della fisica fondamentale. Futuri esperimenti come l’interferometro di terza generazione Einstein Telescope (vd. Antenne in ascolto, ndr), la missione spaziale Lisa (vd. Sinfonia cosmica, ndr) e le osservazioni di precisione con le radiopulsar, permetteranno di captare onde gravitazionali in bande di frequenza mai osservate prima. È una rivoluzione che eguaglia la scoperta delle onde radio o dei raggi X e le cui conseguenze ci stupiranno per i decenni a venire. Oltre a raggiungere una comprensione più profonda dell’universo, la speranza è che queste osservazioni portino a scoprire nuovi segnali inaspettati, magari gettando luce su alcune questioni aperte legate alla gravità. Uno dei problemi aperti più importanti riguarda il destino di un buco nero e che cosa succede al suo interno. Alcuni teoremi dimostrati da Stephen Hawking e Roger Penrose (che ha condiviso il Nobel per la Fisica 2020 per questi studi) mostrano come all’interno di un buco nero debba necessariamente esistere una “singolarità”, ossia una regione dello spaziotempo in cui la curvatura diventa infinita e la teoria di Einstein cessa di funzionare. Ciò che succede vicino alla singolarità è celato dall’orizzonte degli eventi e non ci è quindi possibile osservarlo dall’esterno. Ci aspettiamo però che quando la curvatura vicino alla singolarità raggiunge la scala di Planck gli effetti quantistici della gravità diventino determinanti e modifichino drasticamente la relatività generale. La teoria quantistica della gravità, che dovrebbe risolvere il problema delle singolarità, è il “Sacro Graal” della fisica teorica attuale. Le due proposte teoriche più studiate, la gravità quantistica a loop (vd. Bolle di spazio, ndr) e la teoria delle stringhe (vd. Brividi discreti, ndr), offrono visioni diametralmente opposte su come incorporare effetti quantistici nella teoria di Einstein. Solamente le osservazioni sperimentali (ancora di là da venire) potranno sciogliere il mistero. Non c’è dubbio che i buchi neri e le future osservazioni di onde gravitazionali giocheranno un ruolo determinante: come dimostrato da Stephen Hawking, la meccanica quantistica modifica drasticamente l’orizzonte degli eventi, permettendo a un buco nero di emettere una flebile radiazione, che prende il nome dal fisico britannico scomparso nel 2018. A causa della radiazione di Hawking i buchi neri evaporano molto lentamente fino a scomparire. Dove vada a finire l’informazione originariamente contenuta dentro il buco nero è un altro paradosso che la gravità quantistica dovrebbe risolvere (vd. Masse estreme, ndr). Ancora una volta, forse, la soluzione a questi complessi problemi arriverà dalla solita vecchia domanda: perché gli oggetti cadono?
e.
I teoremi dimostrati negli anni ’60 dai fisici teorici Stephen Hawking (a sinistra) e Roger Penrose (a destra) hanno rappresentato un contributo fondamentale per la comprensione dei buchi neri e delle singolarità nella teoria della relatività generale. Per questi studi Penrose ha ricevuto il premio Nobel per la Fisica nel 2020.
Biografia
Paolo Pani è professore di fisica teorica all’Università di Roma Sapienza. È il responsabile scientifico del progetto DarkGra finanziato dallo European Research Council. È co-autore del libro di testo “General Relativity and its Applications” e del manuale “Superradiance: New frontiers in black-hole physics”, nonché di numerose pubblicazioni scientifiche su tematiche relative alla gravitazione, buchi neri, stelle di neutroni, onde gravitazionali e le loro implicazioni per la fisica fondamentale.