La forma del vuoto
Una luce laser, un campo magnetico e il vuoto: ecco gli ingredienti che potrebbero essere utili per svelare la composizione della "massa mancante" dell'Universo.
di Giovanni Cantatore
Una luce laser, un campo magnetico e il vuoto: ecco gli ingredienti che potrebbero essere utili per svelare la composizione della “massa mancante” dell’Universo. Potrebbe essere lo studio del vuoto, l’elemento più abbondante dell’Universo, a far luce sulla materia oscura. Dal punto di vista della meccanica quantistica, il vuoto non è semplicemente quello che rimane dopo aver tolto tutto, bensì lo stato di energia minima possibile. Secondo il principio di indeterminazione, nel vuoto quantistico, per brevissimi intervalli di tempo, vengono continuamente create e poi annichilite coppie particella-antiparticella. Questo “ribollire” del vuoto non è in media rivelabile, così come è difficile vedere l’acqua di un laghetto alpino calmo e cristallino.
Se però si lancia un sasso nel laghetto, le onde permettono di accorgersi della presenza dell’acqua. Nel caso del vuoto, gli ingredienti sono un campo magnetico, il sasso, e una luce laser polarizzata, per vedere le “onde”. La luce polarizzata è fatta di perturbazioni elettromagnetiche che vibrano sempre parallelamente a se stesse, come cavalli che saltano senza scartare. Le minutissime variazioni della polarizzazione di questa luce ci danno informazioni dirette sulla struttura del vuoto (si tratta di misurare angoli dell’ordine di 10-11 radianti: per avere un’idea provate a pensare all’angolo sotteso, guardando dalla Terra, da una moneta da un euro posta sulla Luna). Che cosa ha a che fare tutto ciò con la materia oscura? Quando i fotoni del fascio laser interagiscono con il campo magnetico è possibile che si generino delle particelle neutre leggere dello stesso tipo di quelle che si pensa si siano create all’inizio dell’Universo e abbiano contribuito, con la loro gravità, a formare la struttura granulare su scala galattica che vediamo nel cosmo attuale. Queste ipotetiche particelle sono stabili e interagiscono rarissimamente con la materia ordinaria. Ne dovrebbe perciò ancora esistere una gran quantità, “relitto” dei primi istanti del cosmo, la cui massa totale potrebbe essere proprio la misteriosa “massa mancante”.La produzione e la rivelazione di queste particelle mai viste prima, direttamente in un laboratorio terrestre, costituirebbero una scoperta di grandissima importanza. Il vuoto quantistico perturbato da un campo esterno è studiato da un gruppo di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare nei Laboratori Nazionali di Legnaro con un sofisticato apparato in grado di rivelare le flebili interazioni tra un campo magnetico e i fotoni di un fascio laser polarizzato (l’esperimento si chiama Pvlas, che sta per Polarizzazione del Vuoto con LASer).
Il principio della misura è molto semplice e consiste nel far passare della luce polarizzata attraverso due prismi polarizzatori incrociati. Se lungo il suo percorso, che include anche una zona di campo magnetico, la polarizzazione della luce non subisce modifiche allora, all’uscita del secondo polarizzatore, ci sarà buio, altrimenti filtrerà una piccola quantità di luce contenente le informazioni sui processi fisici che hanno causato la variazione della polarizzazione stessa. La realizzazione pratica ha però comportato il superamento di sfide scientifiche e tecnologiche di non poco conto per l’estrema piccolezza degli effetti da rivelare. Si utilizza un magnete superconduttore lungo un metro immerso in un bagno di elio liquido in grado di generare un campo magnetico 100.000 volte più intenso di quello terreste. E ci si avvale anche di un particolare dispositivo, detto “risonatore ottico di Fabry-Pérot”, in grado di accumulare i fotoni all’interno del magnete anche per circa un millesimo di secondo (si pensi che un fotone libero impiegherebbe tre miliardesimi di secondo per attraversarlo). Ma ciò ancora non basta. Si immagini per esempio di osservare di notte le luci di una città e di voler individuare la fioca luce di una particolare piccola finestra accesa. Non c’è speranza di riuscirvi a meno che il proprietario della finestra, da noi preventivamente istruito, non accenda e spenga la luce a una certa frequenza concordata. Nel caso del nostro esperimento questa condizione si realizza ruotando fisicamente, con l’equivalente di un grosso giradischi, tutte e cinque le tonnellate di peso del magnete e del criostato che lo tiene nel suo bagno di elio liquido.
Vista del banco ottico inferiore di Pvlas con i componenti ottici attraversati da un fascio laser verde.
La polarizzazione della luce potrebbe quindi squarciare il velo su uno dei misteri più fitti della scienza moderna. I ricercatori di Pvlas non si sono però accontentati di una sola finestra su queste elusive particelle, ma stanno organizzando la caccia con tutti i mezzi a disposizione. Se, infatti, le particelle vengono prodotte a partire dai fotoni che viaggiano all’interno del magnete principale, allora un fascio di queste, grazie alla loro debole interazione con la materia ordinaria, esce e si propaga dove i fotoni sarebbero bloccati dalle pareti opache dell’apparato. Un secondo magnete può allora essere usato per intercettare il fascio di particelle e far sì che un certo numero di loro si riconverta in fotoni “rigenerati”, del tutto identici agli originali. Questo tipo di esperimento, ora in corso di montaggio ai Laboratori Nazionali di Legnaro, viene poeticamente definito light shining through a wall o “luce che brilla attraverso i muri”. Un risultato positivo farebbe certamente molta luce sul mistero della materia oscura.
Biografia
Giovanni Cantatore, dopo la laurea in fisica, si è subito occupato di esperimenti sulla struttura del vuoto con tecniche ottiche, allora in fase iniziale al Cern di Ginevra sotto la guida di Emilio Zavattini.Trasferitosi negli USA, ha lavorato, come membro della collaborazione Brookhaven-Fermilab-Rochester-Trieste, al primo esperimento per lo studio dell’interazione tra un fascio laser e un campo magnetico in vuoto. È attualmente professore associato all’Università di Trieste e dal 2000 riveste il ruolo di responsabile nazionale dell’esperimento Pvlas.
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