Una vita da mediano
Storia della più elegante, eclettica e robusta tra le particelle
di Filippo Ceradini
A metà degli anni ’30 si conoscevano l’elettrone, il positrone, il protone, il neutrone ed era stata ipotizzata l’esistenza del neutrino. Era un’epoca di grande fermento culturale e di progresso tecnologico. Erano state formulate le prime teorie delle interazioni tra particelle: la teoria del decadimento β (vd. fig. d) da Enrico Fermi nel 1934, la teoria delle “forze nucleari” da Hideki Yukawa nel 1935, la teoria quantistica della radiazione elettromagnetica da vari studiosi, tra cui Paul Dirac, Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Viktor Weisskopf e Walter Heitler (quest’ultimo l’aveva esposta in un suo famoso trattato del 1936). I fisici sperimentali avevano sviluppato tecniche per rivelare le particelle ionizzanti con la camera di Wilson e il contatore di Geiger-Müller, e con questi strumenti si studiavano le particelle prodotte in interazioni dei raggi cosmici nell’atmosfera. Gli esperimenti erano condotti per lo più in alta montagna, al Pike’s Peak sulle Montagne Rocciose, al Pic du Midi sui Pirenei e al Plateau Rosa sulle Alpi. Nel 1932, studiando le tracce in una camera di Wilson, Carl Anderson e Seth Neddermeyer osservarono una particella che non si poteva identificare né con il protone né con l’elettrone. La nuova particella, a differenza degli elettroni, rilasciava tracce più nitide e definite e sembrava non perdere energia lungo il percorso. L’anno successivo, Jabez Street ed Edward Stevenson stimarono che questa particella avesse una massa intermedia tra quella dell’elettrone e quella del protone e, per questo, fu chiamata “mesotrone”, oppure semplicemente “mesone” (da
mesos che in greco vuol dire “nel mezzo”). Come si sarebbe capito un decennio dopo, era stato scoperto quello che oggi chiamiamo “muone”, la più elegante, eclettica e penetrante tra le particelle. Misure più accurate permisero di definire le caratteristiche del mesotrone: una massa pari a circa 200 volte la massa dell’elettrone e una carica elettrica sia positiva che negativa. Inoltre, si verificò che i mesotroni positivi decadevano in positroni, con uno spettro di energia continuo, caratteristica tipica del decadimento β dei nuclei. Più problematica fu la misura della loro vita media.
a.
Fotografie di tracce osservate in una camera di Wilson, di diametro di circa 30 cm. Uno sciame di elettroni e positroni, a sinistra, una singola particella ionizzante, a destra.
A quei tempi non si disponeva di strumenti di rivelazione con buona risoluzione temporale e per determinare la vita media dei mesotroni si confrontavano le misure del flusso di queste particelle nei laboratori in montagna ad alta quota con quelle a livello del mare. I primi risultati furono discordanti a causa del diverso comportamento dei mesotroni negativi e positivi (i primi possono essere catturati dai nuclei mentre i secondi decadono in volo). Il problema fu risolto da Bruno Rossi che fin dal 1930 aveva sviluppato nuovi circuiti elettronici che permettevano di mettere in coincidenza temporale i segnali prodotti dai vari rivelatori usati in un esperimento. Nel 1941, Franco Rasetti e, indipendentemente da lui, Bruno Rossi e Norris Nereson, utilizzando i nuovi circuiti accoppiati a contatori di Geiger-Müller, misurarono la vita media di queste particelle ottenendo un valore di 2,2 microsecondi. Questa misura fornì anche la prima verifica diretta della legge relativistica di dilatazione dei tempi: infatti, viaggiando alla velocità della luce i mesotroni percorrerebbero solo meno di settecento metri prima di decadere e non potrebbero giungere fino a noi dopo essere stati prodotti nell’alta atmosfera (vd. [as] radici: Dilatazione dei tempi alla prova., ndr). Il motivo per cui li osserviamo abbondantemente a livello del mare è che la loro vita media nel sistema del laboratorio (in cui viaggiano a velocità prossime a quella della luce) risulta notevolmente dilatata rispetto ai 2,2 microsecondi della vita media nel loro sistema di riposo. Fino ai primi anni ’40 si riteneva che il mesotrone fosse la particella mediatrice delle forze nucleari immaginata da Yukawa nel 1935. La teoria di Yukawa (vd. in Il grande passo dell'antimateria, ndr) prevedeva che i costituenti del nucleo atomico, protoni e neutroni, interagissero e fossero legati tramite lo scambio di particelle aventi una massa dell’ordine di qualche centinaio di masse elettroniche, una caratteristica condivisa dal mesotrone.
b.
Franco Rasetti, in una foto del 1941. Negli anni ’30 Rasetti faceva parte del famoso gruppo dei ragazzi di via Panisperna.
c.
Giuseppe Occhialini (a sinistra) e Cecil Powell (a destra).
L’identificazione del mesotrone con la particella di Yukawa sembrava naturale, ma venne smentita dall’esperimento di tre giovanissimi ricercatori italiani, Marcello Conversi, Ettore Pancini e Oreste Piccioni, che durante la seconda guerra mondiale facevano ricerche sui raggi cosmici nell’allora nuovo Istituto di Fisica dell’Università di Roma “La Sapienza” e, dopo il bombardamento di San Lorenzo, trasferirono gli strumenti nel liceo Virgilio. Conversi, Pancini e Piccioni utilizzarono un metodo sperimentale innovativo che includeva i contatori di Geiger-Müller, circuiti di coincidenza e analizzatori magnetici (le lenti magnetiche sviluppate da Gilberto Bernardini): un moderno spettrometro. Le coincidenze dei contatori e le lenti magnetiche permettevano di selezionare i decadimenti dei mesotroni positivi e negativi. I mesotroni venivano fatti passare attraverso materiali detti “assorbitori” con un numero atomico molto diverso, come il carbonio o il ferro, al cui interno decadevano. L’analisi delle misure dei diversi fenomeni di cattura nucleare e decadimento dei mesotroni positivi e negativi mostrò che il mesotrone non era soggetto alla forza nucleare e non poteva quindi essere la particella di Yukawa (vd. anche
[as] radici - Muoni sotto le bombe., ndr). La sua natura fu chiarita poco dopo, osservando le tracce di una particella “madre” di massa leggermente maggiore, che decade in un mesotrone e in un’altra particella neutra invisibile (che fu poi identificata come neutrino). L’osservazione fu fatta da Cecil Powell, César Lattes e Giuseppe Occhialini, utilizzando delle lastre di emulsione fotografica di grande sensibilità sviluppate in collaborazione con la ditta Ilford. La particella madre fu chiamata mesone-π, mentre alla particella “figlia” (il “vecchio” mesotrone), venne dato il nome di mesone-μ. Si capì allora che il mesone-π era proprio la particella di Yukawa. Il μ, che ben presto fu ribattezzato “muone”, era invece una particella del tutto nuova e inattesa da un punto di vista teorico. Oggi sappiamo che il μ è una particella elementare, appartenente alla categoria dei “leptoni” (dal greco leptos, leggero). Il muone ha perso quindi la definizione di “mesone”, nome che fu dato a una categoria di adroni (particelle soggette all’interazione forte, l’interazione fondamentale alla base della forze nucleari), costituiti da un quark e un antiquark. Il mesone-π (chiamato poi più comunemente “pione”), invece, è un vero e proprio “mesone”, di massa pari a 140 MeV (ovvero 274 volte la massa dell’elettrone).
Subito dopo la scoperta di Lattes, Occhialini e Powell, gli italiani Bruno Pontecorvo e Giampietro Puppi, analizzando il decadimento β del neutrone, il decadimento del muone in elettrone e la cattura del muone da parte di un neutrone (vd. fig. d), giunsero alla conclusione che si trattava di processi dovuti tutti alla stessa interazione, l’interazione debole descritta dalla teoria di Fermi. Questa è la più peculiare tra le interazioni fondamentali, quella che permette il maggior numero di trasgressioni. La teoria originale di Fermi, estesa ai quark dalla teoria di Cabibbo-Kobayashi-Maskawa, prevede un unico parametro fondamentale, la “costante universale di Fermi”, che è determinata dalla vita media e dalla massa proprio del muone. La massa del muone è ottenuta con grande precisione dai livelli di energia dell’atomo muone-elettrone (μ+e-, detto “muonio”), e vale 106 MeV (207 volte la massa dell’elettrone). La vita media del muone è stata poi misurata con precisione crescente utilizzando fasci intensi di muoni, e il suo valore attuale è di 2,197 microsecondi: come risultato la costante universale di Fermi è nota attualmente con la precisione di una parte per milione, e questo grazie al solo muone. L’unico decadimento del muone che conosciamo è in elettrone, neutrino e antineutrino. Per lungo tempo si sono cercati altri modi di decadimento. Il primo tentativo risale al 1948, quando Ted Hincks e Bruno Pontecorvo cercarono senza successo il decadimento di un muone in elettrone e fotone. Nel 1953 Emil Konopinski e Hormoz Mahmoud introdussero il concetto di “numero leptonico”, come quantità conservata nell’interazione debole. L’idea era che l’elettrone, il muone negativo e il neutrino avessero un numero leptonico pari a +1, e che il positrone, il muone positivo e l’antineutrino avessero un numero leptonico pari a -1. Nel decadimento del muone, in effetti, il numero leptonico si conserva se si ipotizza che vengano emessi un neutrino e un antineutrino. Alla fine degli anni ’50, per opera di Kazuhiko Nishijima e Bruno Pontecorvo, emerse l’idea dell’esistenza di “famiglie” leptoniche e di due tipi di neutrino: il neutrino elettronico e il neutrino muonico. L’elettrone e il corrispondente neutrino elettronico, da una parte, il muone e il corrispondente neutrino muonico, dall’altra, costituiscono due distinte famiglie leptoniche, ognuna con il proprio numero leptonico conservato. Il decadimento in elettrone e fotone è invece proibito, perché viola la legge di conservazione del numero leptonico muonico ed elettronico.
d.
Il cosiddetto “triangolo di Puppi”, che illustra il fatto che tre processi diversi (decadimento β, decadimento del muone e cattura muonica) sono accomunati dalla stessa costante di accoppiamento, essendo dovuti alla stessa interazione universale, l’interazione debole.
Ciò comporta che il neutrino e l’antineutrino prodotti nel decadimento del muone appartengano a famiglie diverse. Per verificare questa ipotesi Pontecorvo e, indipendentemente, Melvin Schwartz proposero di usare fasci di neutrini prodotti nel decadimento di pioni in muoni. Utilizzando il più potente acceleratore dell’epoca, l’Ags di Brookhaven, nel 1962 Leon Lederman, Jack Steinberger e Melvin Schwartz mostrarono che i neutrini prodotti con il fascio dell’Ags, fatti interagire con un bersaglio di alluminio, producevano a loro volta muoni ma non elettroni: erano dunque neutrini di tipo muonico. Veniva così confermata l’esistenza di due famiglie leptoniche, cui si sarebbe aggiunta in seguito la terza, quella del leptone τ, scoperto dal gruppo di Martin Perl nel 1975. Decadimenti del muone in violazione della legge di conservazione del numero leptonico sono stati lungamente cercati, fino a raggiungere oggi un limite superiore sui decadimenti proibiti di uno su un milione di milioni. Il muone ha sempre difeso strenuamente la sua identità e l’identità della sua famiglia distinta dalle altre (vd.
Sapori di famiglia e
Passaggi proibiti, ndr). Tra gli anni ’50 e gli anni ’70 il muone è stato il protagonista di molte misure che hanno prodotto importanti risultati. Nel 1953 Val Fitch e James Rainwater introdussero un nuovo metodo per misurare il raggio dei nuclei basato sulla formazione di atomi muonici. Se un nucleo cattura un muone negativo, questo orbita intorno al nucleo a distanza molto più piccola degli elettroni e i raggi X emessi da questo atomo esotico risentono in modo molto più netto delle dimensioni del nucleo.
e.
Vista aerea del Laboratorio di Brookhaven nel 1963 circa. Nella parte centrale superiore della foto è visibile l’Alternating Gradient Synchrotron (Ags).
Con questo metodo, negli anni successivi, sono stati misurati in modo sistematico i raggi di vari nuclei. Aumentando la precisione delle misure, in tempi recenti è stato ottenuto un risultato piuttosto sorprendente: il raggio del protone misurato nell’idrogeno muonico è diverso da quello misurato con altri metodi! È quello che oggi si chiama il
proton radius puzzle che intriga i ricercatori e ha stimolato nuove verifiche (vd.
A stretto raggio, ndr). Un altro rilevantissimo risultato fu la verifica della violazione della “parità” nell’interazione debole (vd.
Specchi imperfetti, ndr). Nel 1956 due giovani fisici teorici, Tsung-Dao Lee e Chen-Ning Yang, per spiegare il bizzarro comportamento di alcune particelle proposero che le interazioni deboli, responsabili del decadimento β dei nuclei e del decadimento del muone, non fossero invarianti per trasformazioni di parità, cioè distinguessero tra destra e sinistra. Il muone, come l’elettrone, ha uno spin che produce un dipolo magnetico e questo può avere due orientazioni nella direzione del moto: destrorsa o sinistrorsa. L’idea di Yang e Lee era che tutti i fermioni potessero avere un comportamento diverso in queste due orientazioni. Questa ipotesi può essere verificata, studiando il decadimento del muone in elettrone. Pochi mesi dopo la proposta teorica di Lee e Yang, Richard Garwin, Leon Lederman e Marcel Weinrich misurarono la direzione degli elettroni prodotti nel decadimento di muoni, di cui si conosceva l’orientazione dello spin. L’ipotesi di Lee e Yang venne così confermata e, in più, Garwin, Lederman e Weinrich ebbero la felice intuizione di mettere in rotazione il dipolo magnetico del muone e osservarono che la direzione dell’elettrone seguiva quella dello spin del muone. Da questo iniziò una lunga campagna di esperimenti per misurare il cosiddetto “momento magnetico del muone”. Esperimenti sempre più precisi, effettuati intrappolando muoni di carica positiva o negativa in un “anello magnetico”, hanno mostrato che il momento magnetico del muone ha un valore diverso da quello previsto dai calcoli teorici nell’ambito dell’elettrodinamica quantistica. Le misure e i calcoli hanno raggiunto la precisione di una parte per milione e per chiarire l’origine di quello che si chiama anche il
muon g-2 puzzle si stanno progettando misure e impostando calcoli teorici che raggiungano precisioni più spinte (vd.
Precisamente anomalo, ndr). I muoni, infine, sono presenti negli stati finali di molti processi subnucleari e ciò li ha resi importanti protagonisti nella scoperta di varie particelle. I bosoni W e Z, mediatori dell’interazione debole, ad esempio, sono stati osservati per la prima volta dalla collaborazione UA1 al Cern guidata da Carlo Rubbia nel decadimento in muoni. E lo stesso bosone di Higgs, nel 2012, ha dato prova della propria esistenza disintegrandosi, oltre che in fotoni, in uno stato finale con quattro muoni. “E questo chi l’ha ordinato?”, disse del muone il grande fisico statunitense Isidor Rabi, quando fu chiara la natura di questa nuova particella, che non sembrava rispondere ad alcuna necessità di carattere teorico. Settant’anni dopo, di fronte alla ricchezza della fisica dei muoni e alle conoscenze sul mondo subnucleare che ci ha fornito, non possiamo che rallegrarci della sua esistenza.
f.
Visualizzazione di un evento di produzione di una coppia di bosoni Z, prodotti di decadimento del bosone di Higgs, in cui si possono osservare quattro muoni (le linee rosse).
Biografia
Filippo Ceradini è stato ricercatore Infn, professore all’Università Sapienza di Roma dal 1987 e uno dei fondatori dell’Università Roma Tre nel 1992. L’incontro con il muone è avvenuto con la tesi di laurea nel 1970 ai Laboratori Nazionali di Frascati (Lnf), dove ora partecipa all’esperimento Kloe. Ha fatto ricerca al Cern con l’esperimento UA1, è stato tra gli iniziatori del progetto RD5 su metodi di trigger e misura di muoni in esperimenti al Lhc e poi dell’esperimento Atlas.
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DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.23.1
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