Elettroni in scia
Nuove tecniche di accelerazione
di Massimo Ferrario
a.
Enrico Fermi, in una foto della fine degli anni ’30.
“Cosa possiamo imparare dagli acceleratori di alta energia?”, si chiedeva Enrico Fermi in una delle sue ultime conferenze, nel lontano 1954. Estrapolando la tecnologia sviluppata per il sincrotrone Cosmotron, entrato in funzione nel 1953 a Brookhaven per accelerare protoni che andavano a interagire contro un bersaglio fisso, immaginava l’utilizzo di un anello che potesse circondare l’intero pianeta Terra per raggiungere un’energia nel centro di massa di 3 TeV (vd. in
Ai confini della realtà fig. e, ndr). Solo otto anni dopo, Ada, il prototipo dell’anello collisore di particelle e antiparticelle proposto da Touschek e costruito a Frascati nel 1961, cambia completamente il paradigma: la collisione di due fasci di uguale energia mette a disposizione nel centro di massa un’energia enormemente superiore a quella che si può ottenere facendo collidere uno solo dei due fasci contro un bersaglio fisso. Questo ha permesso di costruire acceleratori di dimensioni molto ridotte ed è grazie allo sviluppo di questa idea che l’acceleratore Lhc raggiunge oggi 14 TeV nel centro di massa, in un anello di “soli” 27 km. Una situazione analoga si sta ripresentando ora sotto vari aspetti. Si stima che ci siano oltre trentamila acceleratori di particelle funzionanti nel mondo, da quelli utilizzati per la terapia dei tumori negli ospedali agli acceleratori giganti nei laboratori internazionali di fisica delle particelle utilizzati per indagare i segreti del nostro universo. Gli acceleratori hanno anche trovato una vasta gamma di applicazioni nel campo della scienza dei materiali (ad esempio, nella diffrazione di elettroni per gli studi di cristallografia), ingegneria (studio dei difetti strutturali dei macchinari), architettura (prove di stabilità degli edifici) o per il patrimonio culturale (analisi non invasiva di artefatti). Attualmente, un’ulteriore diffusione degli acceleratori di particelle è fortemente ostacolata dalle loro dimensioni e dal loro costo elevato, difficilmente giustificabile anche per i grandi laboratori di ricerca, per non parlare dei costi di manutenzione e operazione. Se le dimensioni di tali macchine potessero essere ridotte in modo significativo, si conterrebbero al tempo stesso i costi e le difficoltà operative.
b.
La stessa energia guadagnata in una cavità risonante lunga 3 m potrebbe essere guadagnata in un canale di plasma lungo 3 cm come quello mostrato nella foto.
Il limite principale da superare risiede proprio nel metodo utilizzato per accelerare le particelle. Quello più diffuso si basa sulle “cavità risonanti a radiofrequenza”, costituite da una struttura metallica all’interno della quale le particelle vengono accelerate da un campo elettrico oscillante a una precisa frequenza di risonanza. Lo stato dell’arte delle cavità permette di raggiungere agevolmente campi acceleranti dell’ordine di 30 milioni di Volt al metro (30 MV/m) in strutture risonanti a 1-3 gigahertz (GHz). A campi più alti però le strutture metalliche che confinano la struttura accelerante tendono rapidamente a danneggiarsi: cominciano a emettere elettroni che producono catastrofiche scariche che ne danneggiano le superfici interne. Una legge empirica (il cosiddetto “limite di Kilpatrick”) indica una possibile soluzione: le superfici interne di una struttura accelerante sopportano campi acceleranti maggiori all’aumentare della frequenza di oscillazione del campo. Attualmente, a frequenze più alte, intorno ai 12 GHz, si raggiungono campi fino a 100 MV/m. Con strutture a 130 GHz si potrebbe arrivare a 300 MV/m. Ma le dimensioni delle cavità risonanti a radiofrequenza sono confrontabili con la lunghezza d’onda, inversamente proporzionale alla frequenza di risonanza, per cui per aumentare quest’ultima le dimensioni delle strutture acceleranti devono diminuire, ponendo problemi di fabbricazione e di tolleranza meccanica non trascurabili. Per superare questa limitazione un enorme sforzo mondiale è in corso verso lo sviluppo di nuove tecniche di accelerazione “ad alto gradiente”, capaci cioè di sviluppare alti potenziali in spazi molto ridotti, p. es. di 100 MV/cm. Gli acceleratori “a plasma” per elettroni (e positroni), ad esempio, sostituiscono le pareti metalliche delle strutture a cavità risonanti a radiofrequenza convenzionali con un gas ionizzato. In questo modo, non esiste più una parete metallica soggetta a danneggiamento.
[as] approfondimento
Piccolo è meglio
1.
Schema di funzionamento di un acceleratore al plasma. Il principio di funzionamento di un acceleratore a plasma può essere spiegato abbastanza facilmente (vd. fig. 1). Un impulso guida viene iniettato in un gas ionizzato (il “plasma”). Gli elettroni del plasma vengono allontanati dalla loro posizione di equilibrio e cominciano a oscillare ortogonalmente all’impulso guida, con una frequenza caratteristica detta “frequenza di plasma”. Nella scia dell’impulso guida si forma temporaneamente una bolla, occupata quasi esclusivamente dagli ioni di carica positiva che generano elevati campi elettrostatici. Un fascio di elettroni iniettato nella scia dell’impulso guida è soggetto a campi acceleranti di decine di GV/m. L’impulso guida può essere un fascio laser ultra-corto (della durata di circa 30 femtosecondi, ossia 30 x 10
-15 s) e ad alta potenza (dell’ordine di 100 terawatt) oppure un fascio di particelle ad alta carica (dell’ordine del nanocoulomb, corrispondente a circa 5 x 10
9 elettroni). Nel primo caso si parla di
laser wake field acceleration (Lwfa), nel secondo di
particle wake field acceleration (Pwfa).
Dalla prima formulazione dell’idea di un acceleratore a plasma, proposta da Toshiki Tajima e John M. Dawson nel 1979, molta strada è stata fatta. Campi acceleranti fino a 200 GV/m sono stati raggiunti sperimentalmente (in particolare anche nei Laboratori di Frascati nell’esperimento Sparc_Lab) e utilizzati per accelerare elettroni e positroni in varie configurazioni. I risultati più importanti negli ultimi anni sono stati ottenuti a Berkeley, con la tecnica del Lwfa (vd. approfondimento) utilizzando un laser da 300 TW per accelerare elettroni fino a 4,2 GeV in soli 9 cm di plasma. Nel laboratorio Slac (a Stanford, in California), invece, utilizzando la tecnica del Pwfa (vd. approfondimento), è stato utilizzato un fascio di 3 x 10
9 elettroni di 40 GeV per eccitare il plasma, dimostrando la possibilità di accelerare sia elettroni che positroni. Gli elettroni hanno guadagnato 1,6 GeV in una colonna di plasma di circa un metro di lunghezza e i positroni hanno superato i 3 GeV. In particolare, per raggiungere energie confrontabili con quelle in uso oggi, p.es. i 13 TeV di Lhc, sarebbe necessario accodare una serie di stadi acceleranti al plasma. Ma la distribuzione angolare ed energetica delle particelle all’uscita di ciascuno stadio, ad esempio, non è - allo stato dell’arte - compatibile con quella richiesta in ingresso dello stadio successivo. Al fine di dimostrare la possibilità di utilizzare i fasci di elettroni accelerati con le nuove tecniche a plasma è stato recentemente lanciato un progetto europeo denominato Eupraxia, con la partecipazione di 16 istituti, tra cui anche l’Infn con il gruppo Sparc_Lab di Frascati. L’obiettivo della collaborazione Eupraxia è di progettare una sorgente di luce di sincrotrone di nuova generazione basata sul free electron laser (vd. in
E luce fu l'approfondimento) e pilotata da un acceleratore a plasma di alta qualità. Tale sorgente dovrebbe poter operare negli anni 2020 per fornire fasci di raggi X a esperimenti pilota. La capacità di produrre fasci di alta qualità e affidabilità renderebbe questa tecnologia appetibile anche per progettare macchine per la fisica delle alte energie.
Ma l’accelerazione ad alto gradiente non è l’unico aspetto oggetto di indagine. Un acceleratore super compatto deve poter contare anche su sistemi di focalizzazione e deflessione del fascio efficienti e di dimensioni contenute. Notevoli risultati sono stati raggiunti con le “lenti a plasma”. Con questa tecnica si sfruttano gli alti campi trasversi presenti nella bolla di plasma, per focalizzare i fasci a dimensioni anche sub-micrometriche in pochi centimetri di plasma. Una possibilità non trascurabile anche per ridurre le dimensioni (dalla scala dei chilometri a quella dei metri) del sistema di focalizzazione finale di un acceleratore lineare. Sperimentalmente sono già state verificate le proprietà del plasma di focalizzare il fascio fino a dimensioni trasverse di una decina di micron. Per quanto riguarda la deflessione trasversa dei fasci, un importante risultato è stato raggiunto recentemente al Cern dalla collaborazione internazionale Ua9, alla quale partecipa anche l’Infn con la tecnica del crystal channelling. Quando una particella carica incide sulla superficie di un cristallo nella direzione del reticolo cristallino, viene deflessa dagli alti campi elettrostatici presenti nel cristallo. Piegando il cristallo in modo opportuno il fascio di particelle può essere “canalizzato” in modo controllato. Una tecnica utile sia per estrarre i fasci di particelle circolanti in un anello, sia per ripulire (“collimare”) il fascio da aloni destinati a perdersi nella camera da vuoto. Con questa tecnica, usando cristalli piegati di silicio lunghi circa 2 mm, in Lhc sono stati collimati fasci di protoni da 6,5 TeV. Come ci insegna la storia è difficile prevedere i tempi di realizzazione di una macchina costruita con nuove tecniche di accelerazione senza incorrere in errore. Tuttavia è evidente un crescente sforzo internazionale di ricerca e sviluppo di nuove componenti che potrebbero rivoluzionare il mondo degli acceleratori. I casi discussi sono solo un piccolo ma rilevante esempio. Non ci resta che aspettare, come auspicava Fermi, “un colpo di fortuna, un balzo teorico oppure, più probabilmente, una combinazione tra duro lavoro, ingegno e un pizzico di buona fortuna”.
c.
Schema di funzionamento del crystal channelling. I nuclei del reticolo cristallino carichi positivamente generano alti campi elettrostatici che impediscono al protone entrante di avvicinarsi al reticolo, canalizzandolo in una direzione diversa da quella di ingresso. L’angolo di deflessione θ è stato ampliato a scopo illustrativo.
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