[as] con altri occhi
Discorso all’Accademia della Fisica.

di David Riondino
artista

Ho sempre manifestato un profondo e disinteressato interesse per i misteri della fisica. Nei miei primi ricordi - ho al massimo dieci anni - sono al mare e medito sulla spiaggia. Rifletto sull’uso della ciambella, che sostiene a galla, ragionevolmente infilata sotto le braccia. Pensai: “Se io mi metto in piedi, con i piedi intrecciati alla ciambella, probabilmente vedrei il mare da un’altra prospettiva, ed eviterei di bagnarmi”. Scesi in acqua, e avviticchiai i piedi alla ciambella immaginando che mi elevasse come un santino. La ciambella risalì, mettendomi però a testa sotto. Mio fratello mi salvò dall’annegamento. Ricordo ancora lo stupore, quello strano stupore che accompagna ogni esperimento fallito. Non contento, qualche anno dopo ripresi la ricerca. Frequentavo un oratorio salesiano: c’era nel piazzale un’altalena, e intuii che sarebbe stato possibile, spostando il baricentro, mantenere un punto di equilibrio anche senza tenersi alle due catene. Tesi verso l’esterno il sedile, mi appoggiai e partii, mantenendo il baricentro in relazione con l’oscillazione. Caddi all’indietro picchiando la testa sul cemento, e fui circondato da preti che mi salvarono. Era un secondo fallimento, ma la mia vocazione astrofisica era ormai indiscutibile: vidi le stelle.
Abbandonai la ricerca mentre si profilava una nuova verità in grado di dar risposta alle più urgenti domande di un adolescente: la telepatia, il teletrasporto, vedere le ragazze nude sotto il vestito. Il cinema e la letteratura illustrata avevano la risposta che cercavo: i Marziani. Contestualmente, l’approccio romantico e decadente al quale mi consegnava la metà del Novecento aggiunse una coloritura psico-sentimentale e la sensibilizzazione politica introdusse la meditazione sul rapporto tra fisica e balistica, tra potere e scienza. Emergevano da vecchi giornali le foto di Fermi, Von Braun, Oppenheimer, funghi atomici, scienziati nazisti in America. E finalmente, gli uomini camminarono sulla Luna di Astolfo.
Il mondo dei calcoli e quello della fantasia, in quelle immagini lunari, si sovrapponevano. Si poteva pensare che la scienza sostenesse il sogno, e che il sogno arrivasse prima della scienza. E quindi che si trattasse di dare un linguaggio scientifico ai sogni, per realizzarli. Sotto sotto, sembrava suggerire la spedizione, noi già sappiamo come vanno le cose, noi già siamo sulla Luna: c’è una parte di noi che già conosce tutto, altrimenti non potremmo concepirlo. Si tratta solo di esprimere in formule questa visione. Novelli alchimisti e negromanti, gli scienziati traducevano in numero la comprovata certezza di poter volare, di essere ovunque e sempre.
Il problema è complesso e tragico: per indagare certe leggi, c’è bisogno di una qualità di calcolo che va oltre le normali possibilità di un abitante del pianeta. L’inadeguatezza è evidente. Ma è altresì chiarissimo che nessuno rinuncia a darsi una spiegazione del suo essere al mondo e che questa spiegazione non può esser quella di essere al mondo per non capire nulla. Ed ecco quindi il fiorire della letteratura popolare sui misteri nascosti, che si rivela interessantissima per i miti che propone, non ultimo quello dell’efficacia della divulgazione scientifica. E va indagato e apprezzato tutto questo confuso lavorìo che cerca di farci sentire al centro di qualcosa, di illuminarci usando i pochi e imprecisi materiali che conosciamo: e quindi di salire la muraglia della conoscenza saltando, per l’appunto, di palo in frasca. Una riflessione sulla divulgazione scientifica porta lontano, diventa un’indagine sui miti che scongiurano l’ansia di sapersi al mondo senza motivo: nella sua mancanza di agonismo, nel suo essere inesorabilmente fuori gara, diventa una dilettevole passeggiata parascientifica.
A proposito di passeggiate, mi è capitato spesso di fare lunghe camminate in luoghi ameni e di meditare sulla psicofisica della camminatura: e ho notato che già camminare è un fatto molto complesso, dato che una massa in equilibrio mette un supporto snodato davanti a un altro con ritmo, istintivamente misurando distanze, ostacoli e altro. Operazioni complicatissime che, modestamente, faccio con gran disinvoltura. Se poi vado ad analizzare la meccanica del mio movimento, non ho il linguaggio adatto, né le conoscenze adeguate per decifrarla. Ne deduco che in me c’è qualcuno che conosce benissimo il funzionamento complesso della camminata, e qualcun altro che cerca di elaborare un linguaggio all’altezza di quel che già sa. Di fatto, noi studiamo quel che già in qualche modo sappiamo, altrimenti non potremmo riconoscerlo, dice il filosofo: possiamo conoscere solo quello che sta nei nostri limiti.
Perdonerete la digressione ellittica, poco lineare: ma va anche tenuto in considerazione che chi vi sta parlando è un La Bemolle. Mi è stato da poco regalato un corso di "cronomusicoterapia applicata", e da una scelta di colori si è arrivati all’identificazione della mia nota base. Dopodiché, sdraiatomi su un lettuccio, sono stato punteggiato di cristalli, e mentre stringevo in mano un sasso di zolfo, passavano su di me, che ascoltavo varie digressioni in La Bemolle, diversi colori. Il bello è che la cosa mi ha fatto bene: mi è passato il mal di testa e ho conosciuto una signora che dice di poter arrivare a centocinquant’anni. Con la quale riflettevo (senza malizia) che il magnetismo, la forza gravitazionale, l’idea stessa di attrazione e di forza sono termini relativi alla sfera semantica dell’astrofisica come a quella dell’eros. Le persone ci si presentano e ci girano intorno con dinamiche simili a quelle delle orbite di stelle e pianeti. E per giunta, a secondo della velocità delle loro rivoluzioni, si presentano più o meno luminose. In qualche modo, anche noi siamo corpi celesti. Mi permetto di concludere citando Lucrezio, e il suo inno a Venere. Che non finisce di stupire, permettendo a esseri ignorantissimi di copulare sotto i ponti o in grandi alberghi per produrre in pochi minuti di oscuro delirio una macchina così sofisticata in grado di camminare, cantare, dipingere e fare calcoli astrofisici, immaginando e realizzando Macchine del Tempo.
 
P.S. Immaginando che questa Macchina del Tempo siamo nient’altro che noi bipedi, mi percorre la schiena un brivido. E mi dirigo al mare, con la mia ciambella sottobraccio, pronto a ripetere l’esperimento. Sono sicuro di riuscirci.
 

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