[as] con altri occhi
Conversazioni atomiche.
di Felice Farina
regista
Sono da sempre ammalato di scienza. Non saprei bene raccontare come sono finito a fare il cineasta, forse perché la scienza mi abita solo per metà e l’altra metà è occupata da un miscuglio di qualcosa che ha a che vedere con l’arte: categoria che in effetti fino ad alcuni secoli fa con la scienza era unita nel tutt’uno di un’infanzia felice. Ma, anche se questa osservazione sembrerebbe precludere a un ennesimo discorso su “arte e scienza”, mi hanno sempre destato una certa perplessità i tentativi di innestare visioni estetiche su problemi scientifici, come spesso è accaduto in molti articoli e documentari. Più in generale, ritengo la divulgazione scientifica un complemento importante dell’attività di ricerca, perché è importante che la comunità conosca le domande che vengono poste dalla scienza alla Natura. Così è nato “Conversazioni Atomiche”, un film di 80 minuti sulla fisica in Italia, dove appunto si conversa, più che teorizzare o difendere assunti. E dove si cerca di seguire un metodo per così dire “galileiano”, cioè si osserva e si traggono conclusioni. Ho iniziato a curiosare nel mondo della ricerca, e fin dalle prime conversazioni ho capito che ne valeva la pena, perché tra gli scienziati italiani, appena oltrepassate le deviazioni della cortina mediatica, ho percepito spesso il vibrare sincrono di competenza e passione, cosa per me entusiasmante. Ho privilegiato la fisica, perché per essa ho una passione ignorante ma ostinata e devota, maturando l’idea di seguire il lavoro di ricerca così come si svolge giorno per giorno, nei laboratori, nelle control room degli acceleratori, nelle aule delle università, raccontare la pazienza, la scala di tempo di un programma di ricerca che può coprire un’intera vita, il confronto incessante con le dimensioni estreme degli anni luce e quelle infinitesime di Planck. E, da sempre legato a un’idea rosselliniana di cinema utile, ho pensato di approfittare di quella competenza e passione per cercare di spiegare almeno a grandi linee, almeno nei concetti, due dei fondamenti della fisica contemporanea, non facili da comprendere intuitivamente, ma che credo oggi debbano essere parte integrante del sapere, non foss’altro perché determinano uno sguardo diverso e assai più profondo sulla Natura: sto parlando della gravità einsteiniana e della meccanica quantistica, le due intuizioni fondanti della fisica il cui disaccordo è tuttora irrisolto e centrale. Un altro dei presupposti che mi sono dato assieme al mio coautore, Nicholas Di Valerio, è stato quello di raccontare con molta esattezza il funzionamento degli apparati di ricerca, spesso presentati come mostruosi mirabilia a effetto, con quel tanto di superficialità che sembra sottintendere che - ahimè - l’utente medio più di tanto non può capire. Per questo ho voluto iniziare da un luogo, per me mitico nei racconti che sentivo fare da bambino su quell’“anello” che stava a Frascati, dove ogni giorno dagli anni ’60 si fanno scontrare particelle, registrando i dati, e poi studiandoli, con la stessa pazienza con cui Galileo misurava la discesa della palla sul piano inclinato, magia di un sistema osservativo inventato con l’ostinazione di carpire alla natura un suo segreto. Un po’ come accadde a Bruno Touschek, la cui storia mi soffermo a raccontare nell’incursione fatta al sincrotrone, della sua brillante trovata di far collidere elettroni e positroni, un meraviglioso insieme di ragionamento deduttivo e di fantasia trasgressiva sull’uso mai fatto prima di una cosa. Oltre alla curiosità, la visita ai laboratori del Gran Sasso, misteriosa deviazione non accessibile dell’autostrada A24, ha avuto anche una spinta etica, che viene dalla nutrita letteratura fake che fantastica di esperimenti che scatenerebbero i terremoti e addirittura l’annichilazione della montagna. Ho trovato invece appassionante raccontare l’idea virtuosa di sfruttare un lavoro pubblico già in corso, che diede luogo a un laboratorio unico al mondo, il primo in grado di filtrare efficacemente i raggi cosmici presenti in natura. Dagli enormi volumi di Xenon1t e di Opera, che abbiamo appena fatto in tempo a filmare durante lo smontaggio, siamo approdati a un piccolo laboratorio densissimo di attrezzatura, dove la passione artigianale e la ricerca avanzata si uniscono in magia: il gruppo di Guglielmo Tino che genera con disinvoltura il condensato di Bose-Einstein, con cui diviene facile giocare con la doppia natura delle particelle, e permettersi quindi di misurare il tempo di caduta di atomi in uno stato quantistico particolare, contribuendo a indagare sul mistero della gravità. Mi ha colpito come il vecchio adagio del disaccordo tra Einstein e Bohr sia tutt’altro che sorpassato, ma sia anzi pronto a venir fuori in molte occasioni, denotando la sua urgenza, dando la sensazione che fin quando la gravità non si accorderà in qualche modo con la meccanica dei quanti la nostra comprensione della Natura rimarrà come soffocata. La gravità occupa una parte importante del film, come una diva protagonista avvolta nel mistero. È la gravità bene o male a far saltare in aria i conti che hanno portato a ipotizzare la materia oscura. Ed è lei la protagonista del buco nero, nel quale la relatività di Einstein trova il suo limite e le equazioni danno infinito. Determina il nostro modo di stare al mondo più dell’elettromagnetismo, ma è infinitamente meno forte. Per questo forse la visita a Virgo ha avuto un che di sacrale, suggerito dall’idea di un rivelatore lungo chilometri fatto per captare non particelle, non onde radio, o luce, ma qualcosa di più sfuggente, teorizzato da Einstein ma mai visto se non recentemente, troppo debole per le antenne risonanti con cui per decenni è stato inseguito, e che paradossalmente proviene da catastrofi immani, che esprimono l’energia di decine di masse solari annichilate in millisecondi, di cui non giunge qui che una traccia infinitesima.
b.
Un’altra scena del film, in cui il regista e il co-sceneggiatore, Nicholas Di Valerio, ammirano una camera a nebbia costruita dall’amico Cristiano “Capoccia” D’Innocenti, astronomo dilettante.
Un’altra scena del film, in cui il regista e il co-sceneggiatore, Nicholas Di Valerio, ammirano una camera a nebbia costruita dall’amico Cristiano “Capoccia” D’Innocenti, astronomo dilettante.
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