Vite da neutroni
È il metodo che fa la differenza?
di Egidio Longo
a.
James Chadwick (a sinistra), a cui si deve la scoperta del neutrone negli anni ‘30, ritratto assieme al Generale Maggiore Leslie R. Groves, Jr., direttore del Progetto Manhattan.
Ci sono settori di ricerca in cui i fisici si dedicano con grandissimo impegno al perfezionamento della misura di una singola grandezza, ritenuta evidentemente fondamentale, attraverso una continua e metodica riduzione degli errori sperimentali. A volte con risultati sorprendenti, come nel caso della vita media del neutrone. Il neutrone, insieme al protone e all’elettrone, è uno dei tre costituenti fondamentali di tutta la materia visibile dell’universo. È quindi evidente che una conoscenza accurata delle sue proprietà è essenziale per verificare le teorie con le quali cerchiamo di interpretare la natura che ci circonda. A differenza del protone e dell’elettrone, che hanno una carica elettrica rispettivamente positiva e negativa, il neutrone è elettricamente neutro e questo complica di molto l’investigazione delle altre sue proprietà. Non è infatti possibile manipolarlo con campi elettrici e magnetici, che sono utilizzati normalmente per accelerare le particelle, per trattenerle su orbite circolari, per selezionarle in impulso, ecc. Inoltre quasi tutti i rivelatori di particelle si basano su effetti legati alla loro carica elettrica e non possono essere utilizzati per rivelare direttamente il passaggio di un neutrone. Questo è il motivo per cui il neutrone è stato scoperto per ultimo, dal fisico inglese James Chadwick, solo agli inizi degli anni ’30. Il neutrone ha un’altra proprietà, che lo distingue dagli altri due costituenti fondamentali della materia: non è una particella stabile, in quanto decade per interazione debole in un protone, un elettrone e un antineutrino, con una vita media di oltre 10 minuti, molto lunga rispetto a tutte le altre particelle elementari instabili, ma ben poca cosa rispetto all’età dell’universo. Può apparire dunque sorprendente, ma è così: uno dei costituenti fondamentali della materia ha una vita media incomparabilmente più breve dell’età dell’universo! Bisogna però considerare che il decadimento del neutrone è reso possibile dal fatto che la sua massa è leggermente maggiore della somma delle masse di protone, elettrone e antineutrino. All’interno di un nucleo, invece, si deve considerare anche l’energia di legame, che è negativa e produce quindi un “difetto di massa” in base all’equivalenza tra massa ed energia prevista dalla relatività: i nuclei stabili sono più leggeri della somma dei loro componenti, cancellando quindi il piccolo eccesso di massa del neutrone libero che ne consente il decadimento. In questo contesto, una misura precisa della vita media del neutrone libero rappresenta una verifica molto stringente delle nostre conoscenze sui primi minuti di vita dell’universo dopo il Big Bang.
Un secondo dopo il Big Bang, l’universo è costituito da un plasma di protoni, neutroni, elettroni e neutrini in equilibrio termico e continuamente rimescolati tra di loro dall’interazione debole. Dopo questo tempo, la temperatura scende al di sotto di questo equilibrio, congelandone le frazioni relative. A questo punto, i neutroni cominciano quindi a decadere, finché, dopo circa 100 secondi, l’ulteriore raffreddamento permette la combinazione di protoni e neutroni per la formazione dei nuclei degli elementi più leggeri (l’idrogeno, il deuterio, l’elio e il litio). Questa nucleosintesi primordiale si conclude dopo qualche minuto. La vita media del neutrone, dunque, confrontabile con questo intervallo di tempo, determina in maniera rilevante l’abbondanza primordiale di questi elementi. Le abbondanze relative predette da questo modello di nucleosintesi possono essere confrontate con quelle osservabili nel cosmo ai nostri giorni e presentano un ottimo accordo, che costituisce una delle più precise verifiche sperimentali dell’ipotesi del Big Bang. Attualmente, l’errore più importante su questa predizione dipende proprio dalla precisione con cui si conosce la vita media del neutrone. Se diamo un’occhiata alla fig. b, che riporta i valori misurati della vita media del neutrone in funzione dell’anno in cui sono state effettuate le misure, osserviamo prima di tutto che le misure iniziano solo negli anni ’50, venti anni dopo la scoperta del neutrone. Queste prime misure, che utilizzano fasci di neutroni lenti (“termici”) prodotti nei primi reattori nucleari, si basano sul conteggio dei loro decadimenti in volo, osservati con la rivelazione in coincidenza dei prodotti visibili del decadimento, il protone e l’elettrone. Questo numero viene confrontato con il numero di neutroni del fascio. Il rapporto misurato dipende però da molti parametri sperimentali (tra cui la probabilità di rivelazione dei prodotti di decadimento) e questa è l’origine delle grandi incertezze di queste misure, dell’ordine del 20%. Un notevole progresso si ha in un esperimento pubblicato nel 1972, nel quale l’efficienza di rivelazione degli elettroni di decadimento raggiunge praticamente il 100%, riducendo drasticamente una delle maggiori fonti di incertezza (in seguito si preferirà misurare con alta efficienza il numero di protoni, vd. fig. c). Come si vede nella fig. b, non solo l’errore è molto più piccolo dei precedenti, ma il valore misurato di 918 secondi si colloca al limite inferiore degli intervalli di errore degli esperimenti precedenti, che pure erano in accordo tra di loro, con valori che si collocavano abbondantemente sopra i 1000 secondi.
b.
Misure della vita media del neutrone in funzione dell’anno. I cerchi blu sono le misure in volo, i quadrati rossi le misure in bottiglia. Nell’inserto sono visibili le misure successive al 1990: le due bande gialle rappresentano le bande di incertezza a un sigma per le medie delle misure in volo (in alto) e in bottiglia (in basso).
c.
Schema di un esperimento in volo. Il fascio di neutroni termici entra da destra (a). La linea gialla rappresenta la traiettoria di un neutrone che raggiunge il bersaglio (b), producendovi una particella alfa (linea rosa) che viene poi rivelata in uno dei contatori (c). In questo modo si può determinare il flusso di neutroni entranti. Alcuni di essi decadranno in un protone, un elettrone e un neutrino. I protoni prodotti vengono intrappolati nel cilindro (d) da un campo elettrico e imbottigliati da un campo magnetico. Quando si vuole contare il numero di neutroni decaduti, si arresta il flusso dei neutroni e si apre uno dei due lati della trappola elettrica: i protoni (linea verde) seguono delle eliche intorno alle linee di forza del campo magnetico, che li guidano verso il rivelatore (e) dove vengono contati con grande accuratezza.
Nel 1980 viene realizzata una misura con una tecnica sostanzialmente diversa, nella quale si utilizzano neutroni ultrafreddi, con una energia cinetica che corrisponde a una temperatura minore di 1 mK. In queste condizioni, con opportuni materiali è possibile realizzare pareti che risultano totalmente riflettenti per i neutroni: si possono quindi realizzare vere e proprie bottiglie, nelle quali i neutroni possono essere immagazzinati per centinaia di secondi, prima che le inevitabili perdite divengano significative. In queste condizioni, due misure successive del numero di neutroni contenuti nella bottiglia permettono in linea di principio di determinarne la vita media. Dal 1980 al 2004 le due categorie di misure (“in volo” e “in bottiglia”) danno risultati via via più precisi e in buon accordo tra loro, tanto che il Particle Data Group (Pdg) pubblica nella Review of Particle Physics del 2004 un valor medio di 885,7 ± 0,8s, che soddisfa gli stringenti test statistici per la combinazione di misure diverse. Nello stesso anno, tuttavia, viene annunciato un nuovo risultato in bottiglia estremamente preciso, ma che risulta 5 sigma inferiore rispetto al più basso degli altri valori. Nell’edizione del 2010 il Pdg scarta questo risultato con il criterio che è troppo lontano dagli altri, ma quasi contemporaneamente un nuovo risultato ottenuto con il confinamento magnetico, una variante del confinamento in bottiglia, conferma un valore inferiore. Inoltre, una successiva rianalisi di un altro degli esperimenti in bottiglia riporta anche questo risultato a un valore più basso. L’insieme delle misure più precise effettuate con i due metodi è riportato nell’inserto della fig. b: come si vede, le due famiglie di misure sembrano addensarsi intorno a valori significativamente diversi. Ci sono errori sistematici non presi in considerazione nelle due tipologie di misura, o c’è invece qualche proprietà fisica, al momento impredicibile, che rende diverse una misura in bottiglia e una in volo? Nuovi e più precisi esperimenti sono in preparazione con entrambi i metodi e ci si aspetta in particolare che l’imbottigliamento magnetico, meno soggetto degli altri a errori sistematici, possa gettare nuova luce su questo intrigante dilemma.
DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.22.4
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