Einstein al limite
Le crisi che aiutano a crescere

di Stefano Liberati


a.
Il pianeta Mercurio in “falsi colori”, ripreso dalla sonda Messenger della Nasa. Il moto anomalo di Mercurio rappresentò la prima conferma della relatività generale.
“Einstein aveva torto”. Quante volte abbiamo letto titoli simili su giornali o siti web di divulgazione scientifica. Ma le teorie scientifiche possono essere sbagliate? Certo! I cestini dei fisici teorici sono pieni d’idee che non hanno trovato riscontro nella realtà. Eppure è corretto dire che buone teorie scientifiche non possono mai essere realmente sbagliate. Infatti, l’invenzione scientifica non è mai un fatto scorrelato dal passato e nuovi modelli finiscono sempre per poggiarsi su teorie scientifiche che hanno già mostrato di poter predire i fenomeni fisici nello stesso ambito. Le nuove teorie estendono le precedenti, non le rimpiazzano. Per questo la scienza è impegnata nella costante ricerca di osservazioni che contraddicano la teoria dominante, perché queste osservazioni sono la chiave per estenderla. Ma un’osservazione anomala (posto che sia corretta) non prova necessariamente che la teoria abbia raggiunto il suo limite predittivo. Nel 1781 William Herschel scoprì il pianeta Urano, ma quasi subito fu notato che il suo moto era in disaccordo con le predizioni della gravità newtoniana. Fu così che nel 1846 il matematico francese Le Verrier ipotizzò l’esistenza di un altro pianeta, ancora più esterno, predicendone la posizione sulla base della teoria newtoniana. Quello stesso anno fu individuato Nettuno a solo un grado di distanza dalla predizione di Le Verrier. Pochi anni più tardi (1859) lo stesso Le Verrier si cimentò in uno studio del moto di Mercurio, il pianeta più vicino al Sole. Già dal 1843 si era notato come il perielio dell’orbita del pianeta (il suo punto di massima vicinanza al Sole) mostrasse uno spostamento angolare (“precessione”) anomalo (sebbene di soli 43 secondi d’arco, poco più di un centesimo di grado, ogni secolo) (vd. anche in Asimmetrie n. 5 Einstein sotto esame, ndr). In analogia con la predizione di Nettuno, Le Verrier adottò la stessa idea: postulò quindi l’esistenza di un piccolo pianeta più vicino al Sole, Vulcano. Negli anni a venire molti astronomi cercarono invano questo pianeta. In questo caso si dovette quindi accettare la conclusione che nulla era stato trascurato nei dati del problema, e che la teoria di Newton in queste circostanze fallisse. Il limite era stato raggiunto. Nel caso della gravità newtoniana il limite consisteva nel fatto che la teoria si può applicare per campi gravitazionali deboli e lentamente variabili, a velocità basse rispetto a quelle della luce. Mercurio più di tutti gli altri pianeti sente la forza della gravità del Sole e non soddisfa appieno queste condizioni, così per predire la precessione del perielio è, in effetti, necessaria una teoria più sofisticata: la relatività generale. La stessa relatività generale è un buon esempio per questo tema. Pur essendo basata su fondamenta radicalmente diverse dalla teoria newtoniana (con l’introduzione del concetto di campo gravitazionale, e con la sua interpretazione della gravità come curvatura dello spaziotempo) essa si riduce alla precedente teoria nel suddetto limite di campi deboli, quasi statici e a basse velocità. La teoria di Newton non è quindi sbagliata, è solo una parte di una teoria più vasta e complessa, e quindi più predittiva. Per quanto riguarda invece la determinazione del limite di applicabilità della relatività generale, è notevole che non dovremo aspettare un’osservazione come la precessione del perielio di Mercurio per conoscerlo. Infatti, i cosiddetti teoremi di singolarità di Penrose, Hawking ed Ellis hanno dimostrato che la relatività generale cessa di essere predittiva sia all’inizio della storia del nostro universo (al cosiddetto Big Bang) sia alla fine di un collasso gravitazionale, quando una stella morente forma un buco nero. In questi casi i fisici parlano di singolarità, un termine accattivante per dire che la teoria non è più in grado di predire la forma dello spaziotempo. In tali circostanze le scale di lunghezza ed energia raggiungono la cosiddetta scala di Planck (rispettivamente, 10-35 metri e 1028 elettronVolt), alla quale una fusione tra la relatività generale e la meccanica quantistica è inevitabile.
 
b.
Rappresentazione artistica della struttura dello spaziotempo a piccolissime scale. È illustrato uno zoom dello spaziotempo alla scala di Planck (dell’ordine di 10-35 metri). Si visualizza quanto la sua struttura sia mutevole e complessa a causa della natura quantistica della gravità a queste scale.
 
Un’ultima riflessione è forse opportuna sulla terra di confine tra le teorie, ovvero su quei regimi in cui la teoria originaria non è più del tutto predittiva, ma ancora gli effetti della teoria più generale sono deboli. Queste “terre di mezzo” sono forse le aree di ricerca più interessanti, perché in esse si possono trovare risposte su quale teoria più generale rimpiazzerà la vecchia. Ad esempio, l’attuale modello cosmologico basato sulla relatività generale spiega le osservazioni al costo di introdurre due componenti sconosciute, la materia e l’energia oscura, che dovrebbero costituire circa il 95% dell’universo. Ma come possiamo sapere se stiamo ripetendo il successo della predizione di Nettuno o l’illusione di Vulcano? Parametrizzare il discostamento dalla teoria newtoniana permette di controllare se quello che c’è oltre il suo confine lascia le tracce tipiche della teoria di Einstein o di qualche altra teoria classica con più variabili. Finora tutto è in accordo con la relatività generale, ma siamo lontani dall’aver sondato tutte le scale immaginabili. I dati sempre più precisi in cosmologia, e la recente osservazione delle onde gravitazionali, ci permetteranno di conoscere sempre più accuratamente la terra di mezzo tra Newton ed Einstein e di capire sempre meglio se la relatività generale sia esattamente la teoria classica della gravità, anche a grandi scale o per campi gravitazionali estremi. Ma lo studio della terra di mezzo può far di più che testare il legame tra due teorie esistenti, può forse indicarci come costruire una teoria più generale. Questo è il caso della “fenomenologia della gravità quantistica”, un campo sviluppatosi negli ultimi vent’anni che mette alla prova osservativa e sperimentale possibili deviazioni nella fisica osservabile indotte da quella oltre la scala di Planck. Tali deviazioni non sono al momento predizioni univoche di una specifica teoria della gravità quantistica, ma implicazioni generali di possibili scenari. Ad esempio, la presenza di una scala di lunghezza fondamentale potrebbe implicare che la relatività speciale valga solo alle nostre scale di energia, ma sia violata vicino alla scala di Planck. Ebbene tali congetture possono oggi essere sottoposte a verifica ad esempio attraverso le osservazioni dell’astrofisica delle alte energie. La terra di mezzo sembra essere molto ricca in questo caso, e forse ingiustamente a lungo trascurata. Come in un processo evolutivo delle idee, le nostre teorie fisiche si trasformano e raffinano al fine di spiegare sempre meglio l’universo che ci circonda. Molte “mutazioni” non hanno seguito, altre si rivelano utili a spiegare e predire più fenomeni naturali. Non sappiamo se questo processo avrà mai fine, ma certamente solo attraverso di esso potremo progredire nella nostra conoscenza della natura.
 

Biografia
Stefano Liberati, astrofisico, è professore presso la Sissa di Trieste nel gruppo di fisica astroparticellare. Ha conseguito il Ph.D. nel 2000 e ha poi lavorato come post-doc negli Stati Uniti presso l’Università del Maryland. È membro del consiglio direttivo della Società Internazionale di Relatività Generale e Gravitazione e del suo corrispettivo italiano, la Sigrav. I suoi campi di ricerca sono nell’ambito della teoria della gravitazione, spaziando dalla fenomenologia della gravità quantistica agli aspetti termodinamici della fisica dei buchi neri.


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DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.22.7
 

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