A tutta velocità
Storie e tecnologie degli acceleratori di particelle.
di Vittorio Giorgio Vaccaro

“Caspita! – esclamò Rutherford compiaciuto, esaminando i risultati del bombardamento – Se avessi una batteria di cannoni più potenti!”, aggiunse con una punta di rammarico, immaginando quello che avrebbe potuto ottenere con mezzi ancora tutti da inventare. Ernest Rutherford, da poco fatto (non per meriti militari ma scientifici) Lord Rutherford di Nelson, stava riflettendo sui risultati di un esperimento che consisteva nel bombardare un sottilissimo foglio d’oro con raggi α (che oggi sappiamo essere i nuclei dell’elio, cioè due protoni legati a due neutroni) emessi da sorgenti radioattive. Possiamo dire che da questo esperimento partì la fisica nucleare e si cominciarono a ideare cannoni sempre più potenti che saranno poi chiamati acceleratori.
Grazie ad essi si producono particelle accelerate da usare come proiettili da sparare contro altre particelle per romperle e studiare che cosa viene prodotto durante questa interazione tra bersaglio e proiettile. Correva l’anno 1910.
Era ormai comune convincimento dei fisici che la materia fosse costituita da atomi e che questi fossero formati da cariche positive e da cariche negative, ma non si sapeva nulla circa la disposizione di queste cariche all’interno dell’atomo. Dopo numerosissimi colpi sparati sugli strati di atomi del foglietto d’oro, accuratamente rilevati uno per uno su di uno schermo, Rutherford aveva di che compiacersi perché era riuscito a osservare un numero significativo di deviazioni, tante da giustificare l’ipotesi che l’atomo avesse una struttura planetaria: al suo centro c’era un nucleo positivo circondato da elettroni orbitanti intorno ad esso.
a.
All’epoca di Rutherford, due erano le ipotesi avanzate sulla struttura del nucleo: per Thomson, infatti, la carica positiva occupava una sfera al cui interno le cariche negative erano disposte in ordine sparso come l’uva sultanina nel panettone; per Rutherford, invece, l’atomo era un sistema planetario con un nucleo centrale di carica positiva e una nuvola di elettroni, ruotanti attorno ad esso. Nel primo caso i “proiettili”, attraversando una regione complessivamente neutra, sarebbero passati quasi indisturbati; nel secondo, invece, si sarebbero osservate alcune deviazioni, anche notevoli, perché la carica positiva era concentrata nel nucleo. Rutherford riuscì a osservare un numero significativo di deviazioni, tante da giustificare la correttezza della sua ipotesi: al centro dell’atomo c’era un nucleo che sembrava impenetrabile. Questa è una rappresentazione schematica e non in scala dell’atomo perché se mantenessimo le proporzioni gli elettroni non sarebbero rappresentabili in figura: la loro distanza dal nucleo sarebbe 10 mila volte il raggio del nucleo stesso.

La spinta propulsiva impressa da Rutherford diede i suoi frutti che maturarono dopo la pausa della Prima Guerra Mondiale. Innanzitutto la strada era già tracciata: come sonde per studiare la materia le particelle cariche si erano dimostrate all’altezza della situazione. Per di più le forze elettriche necessarie all’accelerazione sono facili da generare. Si puntò quindi sugli elettroni e sugli ioni (cioè atomi ai quali sono stati aggiunti o sottratti alcuni elettroni, rimanendo quindi con carica negativa o positiva) che si producono abbastanza facilmente per mezzo di scariche elettriche, per riscaldamento o facendoli passare attraverso un gas opportuno. Si pensò, inoltre, di farli viaggiare nel vuoto per ridurre le perdite dovute agli urti con le molecole di gas. Allora, per creare forze elettriche sempre più intense, si fece ricorso a sistemi in grado di generare differenze di potenziale sempre più grandi, che furono detti “a caduta di potenziale”. Un oggetto di massa m, in caduta libera, acquista un’energia cinetica proporzionale alla massa m, all’altezza da cui è caduto h e alla accelerazione di gravità g.
Quindi, riformulando quanto appena detto, abbiamo che l’energia cinetica acquisita è pari a m·(h·g); parimenti una particella di carica e, che si muova tra due punti tra i quali vi è una differenza di potenziale V, acquista un’energia descritta da una formula simile (e·V), in cui la carica prende il posto della massa, e il potenziale V prende il posto di h·g. Da allora è invalso l’uso di misurare l’energia in eV, cioè elettronvolt, e multipli o sottomultipli di mille in mille. Agli inizi degli anni ’30 due ricercatori, John Douglas Cockcroft e Ernest Walton, appartenenti non a caso alla scuola di Rutherford, ottennero alta tensione continua a partire da un generatore alternato di bassa tensione, utilizzando un particolare circuito composto da diodi a vuoto e condensatori.
Ebbero così la differenza di potenziale necessaria per accelerare gli ioni proiettile. Questi congegni, al tempo rivoluzionari, erogavano fasci di nuclei non molto intensi e di energia limitata a qualche MeV. Tuttavia, il loro uso permise di far vincere il Premio Nobel ai due ricercatori per aver provocato nel 1932 la prima trasmutazione nucleare, bombardando atomi di litio con protoni tra 100 e 500 keV, trasformandoli in berillio.

b.
L’acceleratore Cockcroft Walton che fu in uso dalla fine degli anni ’30 all’Istituto Superiore di Sanità e che oggi è in esposizione ai Laboratori Nazionali di Frascati dell’Infn.

L’acceleratore di Cockcroft e Walton fece il suo tempo abbastanza rapidamente come strumento di ricerca, ma per moltissimi anni fu usato come pre-acceleratore per macchine più potenti. Oggi è presente in ambito industriale ed è il “cannone” dei microscopi elettronici. Più longevo nel mondo della ricerca è stato l’acceleratore ideato da Van de Graaff. È sempre un acceleratore a “caduta di potenziale” come il precedente, nel senso che genera una tensione continua tra una grossa sfera conduttrice e la terra. L’ingegnosità sta nel fatto che l’aumento di potenziale è effettuato trasportando “materialmente” le cariche elettriche.
Oggi i Van de Graaff sono macchine commerciali con potenziali che variano da un milione a 25 milioni di Volt e sono spesso usati nell’analisi e nella modifica dei materiali e nella ricerca ambientale.

Nel frattempo, al di fuori degli ambienti scientifici, appare la figura del norvegese Rolf Wideroe che durante i suoi studi all’Università di Aquisgrana, all’età di soli 20 anni, aveva già sognato di realizzare un “trasformatore di radiazioni” che in seguito fu chiamato betatrone, ed ebbe grande importanza nella produzione di raggi X negli ospedali.

c.
Schema di funzionamento di un acceleratore Van de Graaff.

La genialità di quest’idea sta nel fatto che il campo magnetico, oltre a piegare le particelle cariche tenendole su un’orbita circolare, ne aumenta anche l’energia, se varia nel tempo in maniera opportuna. Egli presentò questo progetto sotto forma di tesi di dottorato in ingegneria all’Università di Aachen. Il trasformatore fu costruito ma l’esperimento fallì per motivi tecnici. Anni dopo, nel 1940, il betatrone aveva trovato modo di essere reinventato da Donald Kerst negli Stati Uniti con larghe applicazioni.
Nell’ambiente degli scienziati vige il fair play e quasi sempre, anche se non proprio sempre, chi reinventa riconosce il lavoro di chi li ha preceduti. Così è avvenuto nei confronti di Wideroe.

Wideroe allora cominciò a costruire un acceleratore “diritto” o, come è attualmente chiamato, un acceleratore lineare, con cui riuscì ad accelerare nuclei atomici fino a energia cinetica di 50 keV. Questo è formato da tubi detti “a scorrimento” o drift tube, di lunghezza variabile cui viene applicata una tensione variabile con frequenza opportuna. Rolf Wideroe fu una mente vulcanica: negli ambienti scientifici gli si riconosce di aver ideato il betatrone, il sincrotrone, l’acceleratore lineare, gli anelli di accumulazione per fasci collidenti. Quest’ultima intuizione precorse di circa 40 anni la sua realizzazione che, come vedremo, avvenne negli anni ’60 in Italia ai Laboratori Nazionali di Frascati dell’Infn.
Esiste una legge fondamentale sia nell’ottica che nel mondo delle particelle: bisogna usare sonde caratterizzate da lunghezze d’onda confrontabili con le dimensioni degli oggetti da studiare. Le particelle, come scoperto nel 1923 da Luis de Broglie, si possono manifestare in forma ondulatoria, con lunghezza d’onda inversamente proporzionale all’energia. L’esigenza di indagare aspetti sempre più profondi del comportamento della materia impose, quindi, di ricercare acceleratori di energia sempre maggiore: questo ha portato a una corsa verso macchine acceleratici sempre più potenti e di conseguenza più grandi.

A Berkeley, Ernest Lawrence si era posto il problema di soddisfare le esigenze dei fisici con strumentazione semplice e relativamente poco costosa. Wideroe, nella sua autobiografia, riferisce: “Lawrence, una volta, mi raccontò che, durante una conferenza a Berkeley, intorno al 1928, annoiato dalle presentazioni, andò in biblioteca e trovò la mia tesi nel periodico Archiv für Elektrotechnik. Guardò solo i disegni e le formule perché conosceva poco o nulla di tedesco. Dalle illustrazioni capì subito il principio dei miei drift tube. Per sua grande fortuna, l’ignoranza del tedesco non gli permise di comprendere nulla circa le mie riserve, riportate nel saggio, sulla stabilità delle orbite negli acceleratori circolari. Tornato al Radiation Laboratory, insieme al suo allievo David Sloan, costruì il suo primo acceleratore lineare per ioni di mercurio, con il quale raggiunse 1,26 MeV. Fu un’incredibile impresa!”.

d.
Lo schema originale, realizzato da Wideroe, del dispositivo da lui stesso ideato. Accuratamente disegnato a colori, quasi con senso artistico, lo schema illustra il principio di funzionamento del sistema: quest’idea, con poche varianti, è stata più tardi realizzata e ha avuto applicazioni nei più svariati campi.

Si stava arrivando alle stesse energie dei proiettili prodotti da nuclei instabili usati da Rutherford ma con intensità enormemente più elevate, e fasci estremamente collimati. Gli obiettivi di Lawrence erano molto ambiziosi: voleva raggiungere molte decine di MeV con fasci intensi. Fare ricorso allo schema dell’acceleratore lineare avrebbe significato aggiungere altri drift tube e quindi altri costosi alimentatori. Solo in seguito, con lo sviluppo di potenti generatori di microonde, come quelli usati nei radar della Seconda Guerra Mondiale, l’idea degli acceleratori lineari, sia per elettroni che per protoni, fu ripresa ed enormemente sviluppata, in particolare da Louis Alvarez a Berkeley. Questa soluzione è ancora attualissima e ha visto realizzazioni imponenti: l’acceleratore lineare di Stanford, lungo 3 chilometri, nel 1966 accelerò elettroni a 20 GeV ed elettroni e positroni a 50 GeV, nel 1989.

e.
Primo piano dei tubi di scorrimento dell’acceleratore Linac del Fermilab di Chicago.

Ma ritorniamo agli inizi degli anni ’30. Lawrence, per superare i limiti degli acceleratori lineari, pensò di far ritornare indietro il fascio di particelle in modo da sottoporlo sempre all’accelerazione dello stesso alimentatore. C’era pertanto bisogno di un elettromagnete che curvasse la traiettoria del fascio. Come elettrodi acceleranti, ideò una struttura formata dalle due metà della superficie di un cilindro conduttore molto schiacciato (come una scatola di caramelline): una metà era collegata alla massa e l’altra a un generatore a radiofrequenza. Le particelle cariche, accelerando dopo ogni passaggio tra gli elettrodi, viaggiano lungo semicirconferenze sempre più grandi, che però percorrono sempre nello stesso tempo, perché la loro velocità aumenta.

f.
Schema di funzionamento di un acceleratore lineare. Le particelle di carica positiva, protoni, sono immesse all’interno dei tubi di scorrimento, con potenziali che si alternano nel tempo grazie a una sorgente a radiofrequenza. Vengono accelerate solo le particelle che hanno alle spalle un elettrodo positivo e davanti quello negativo, come in figura. Mentre esse si trovano all’interno di ciascun elettrodo, non risentono delle forze elettriche e proseguono il loro moto indisturbate: nel frattempo il generatore cambia polarità e quando la particella esce ritrova di nuovo una configurazione che provoca un’ulteriore accelerazione. Man mano che le particelle attraversano i tubi, acquistano sempre più velocità e impiegano sempre meno tempo a percorrerli. I tubi devono quindi aumentare di lunghezza, ma c’è un limite: quando i protoni si avvicinano alla velocità massima, quella della luce, la velocità cresce in modo impercettibile (e quindi non è necessario allungare i tubi di scorrimento).

Il ciclotrone, costruito da Lawrence in collaborazione con il suo allievo Milton Stanley Livingston, accelerò i protoni all’energia prevista, anche se modesta, di 80 keV. Era il 1932 e il principio di funzionamento era stato quindi dimostrato. Livingston commentò l’invenzione del ciclotrone sostenendo, forse con un po’ di civetteria, che molto probabilmente non avrebbero mai preso in considerazione questo progetto se avessero saputo delle riserve espresse da Wideroe in quel lavoro. E altrove ebbe a dire: “Quando io costruii il ciclotrone, Lawrence ebbe il Nobel e io il titolo di dottore di ricerca...”.
Si cominciarono a costruire ciclotroni sempre più grandi e dalle prestazioni sempre più spinte, ma il loro limite principale era dovuto alla perdita del sincronismo quando la velocità delle particelle si approssima a quella della luce. La velocità della luce nel vuoto, infatti, non può essere superata: l’aumento di energia delle particelle durante l’accelerazione si manifesta con un aumento sensibile di massa relativistica e impercettibile di velocità. Di conseguenza diminuisce la “frequenza di ciclotrone”. Ma non ci si arrese e si risolse il problema diminuendo progressivamente la frequenza del generatore (sincrociclotrone) o, ancor meglio, sagomando il campo magnetico in funzione del raggio, per compensare l’incremento di massa relativistica (ciclotrone isocrono).
Il ciclotrone continua tuttora a essere utilizzato per la sua grande versatilità, semplicità e robustezza: non è una Ferrari ma uno strapotente bulldozer! Ha una larghissima applicazione in campi come la terapia oncologica e la produzione di atomi radioattivi usati nella diagnostica per immagini.

g.
Schema di funzionamento del ciclotrone. Partendo dalla sorgente posta al centro, un protone, che ha carica positiva, è attratto dal semidisco carico negativamente e viene invece respinto da quello carico positivamente. Entra così all’interno dell’elettrodo dove non vi è campo elettrico ma solo magnetico, e compie quindi una semicirconferenza. Il campo elettrico tra gli elettrodi nel frattempo evolve (essi sono alimentati da un generatore di tensione alternata che, in un semiperiodo, inverte la sua polarità): proprio nel momento in cui il protone ritorna nell’intercapedine, incontra un campo accelerante, subisce un’ulteriore accelerazione, e compie una seconda semicirconferenza con raggio maggiore; il processo si ripete finché il protone, dopo aver compiuto tutto il percorso a spirale, arriva in periferia e viene estratto con la massima energia.
[as] approfondimento
La frequenza di ciclotrone

Il fisico americano Ernest Orlando Lawrence, quand’era a Berkeley nel 1929, notò che la frequenza di rotazione di una carica elettrica non relativistica su un’orbita circolare in un campo magnetico uniforme è indipendente dall’energia della particella e dal raggio.
Le formule (deducibili dalla “forza di Lorentz”) per il raggio R e la frequenza di rotazione f di una particella di carica q, massa m e velocità u in un campo magnetico di induzione B sono: mu = qBR, 2πf = qB/m.
Naturalmente, il piano dell’orbita circolare è ortogonale al vettore del campo magnetico e 2πfR = u. La frequenza f si chiamerà, da allora in avanti frequenza di ciclotrone, dal nome dell’acceleratore che Lawrence inventò e costruì. [Carlo Bernardini]

Poiché, come detto prima, l’indagine nell’infinitamente piccolo richiede proiettili sempre più energetici, questa può essere condotta soltanto con particelle cariche che viaggiano a velocità sempre più prossime a quella della luce. Per soddisfare questa esigenza è nata una nuova generazione di acceleratori, i sincrotroni, che si basa sull’idea di separare spazialmente l’apparato che guida (magneti di vario tipo) da quello che accelera (cavità risonanti capaci di generare alti campi a frequenza variabile). Quest’ultimo apparato deve essere capace di inseguire in modo sincrono le particelle. I fasci di particelle cariche viaggiano su traiettorie chiuse quasi circolari, curvati e collimati dalla forza dei campi magnetici e accelerati dalle forze dei campi elettrici. Siamo alla fine degli anni ’40 e in Inghilterra viene dimostrato il principio di funzionamento del sincrotrone, da allora la macchina di maggior diffusione nella fisica delle alte energie e con applicazioni in molti altri campi. Macchine di sempre maggior energia furono costruite, sia per protoni che per elettroni. L’Italia fece bene la sua parte: nel 1957 iniziava a funzionare il sincrotrone dei Laboratori di Frascati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, mantenendo in quegli anni il record mondiale in energia con elettroni, un miliardo di elettronvolt (1 GeV).
Ad oggi, il sincrotrone di massima energia è il Tevatron, del Laboratorio Fermi in prossimità di Chicago: come dice il suo nome, raggiunge l’energia di 1 TeV, cioè ben mille miliardi di elettronvolt!

h. / i.
a sinistra
L’elettrosincrotrone dei Laboratori di Frascati dell’Infn nel 1959.
a destra
L’anello di accumulazione Ada ai Laboratori di Frascati dell’Infn nel 1961.
l.
“Durante la costruzione di Ada, Bruno Touschek partecipò attivamente a tutte le fasi del progetto e certamente il suo entusiasmo e la sua conoscenza delle macchine acceleratrici acquisita durante e dopo la guerra furono determinanti per il suo successo”. [Da “Bruno Touschek e la nascita della fisica e+ e-: una storia europea”, Giulia Pancheri, Analysis, 2005].

Questo successo ebbe grande risalto a livello internazionale. L’avventura era iniziata il 7 marzo 1960, giorno in cui Bruno Touschek tenne un seminario ai Laboratori di Frascati dell’Infn durante il quale propose di costruire un anello di accumulazione elettrone-positrone. Egli aveva lavorato con Wideroe nel 1943 ad Amburgo e in seguito aveva sempre manifestato una profonda ammirazione per questo inventore. Con il suo lavoro ora stava per dare concretezza a quelle idee riguardanti gli anelli di accumulazione. Una settimana dopo il seminario di Touschek, uno studio preliminare dimostrò che la proposta era realizzabile.
Fu deciso di progettare e costruire Ada (Anello di Accumulazione) il cui costo ammontò a soli otto milioni di lire! Il progetto consisteva nell’accumulare in un campo magnetico fasci di elettroni e positroni, ciascuno di 250 MeV, che circolavano percorrendo in senso contrario quasi la stessa orbita, incontrandosi in quattro punti. L’esperimento, compiuto in appena un anno, nel quale Touschek svolse un ruolo essenziale, ebbe un grandissimo successo: dimostrò che era possibile sia l’accumulazione dei fasci negli anelli, sia la collisione frontale tra particelle.
Non c’è dubbio che Ada sia stata la progenitrice di una lunga discendenza di collider elettroni-positroni costruiti nei vari laboratori di fisica di tutto il mondo. Il discendente più famoso di Ada è stato il Lep (Large Electron-Positron Collider) del Cern di Ginevra che, inaugurato nel 1989, ha lavorato per 12 anni, con importanti risultati scientifici. Il Lep era un anello gigante con una circonferenza di ben 27 km (ben 7.000 volte quella di Ada) in un tunnel a 100 m di profondità, che abbastanza curiosamente attraversa i confini della Svizzera e della Francia.

m.
Nel tunnel del Lep

L’idea di far circolare nello stesso anello, ma in versi opposti, sia materia che antimateria, non riguardò solo elettroni e positroni: il Cern convertì nel 1981 il suo protosincrotrone (cioè l’acceleratore per protoni) da 400 GeV in un collisore protone-antiprotone, e gli esperimenti diedero risultati fondamentali, premiati col Nobel a Carlo Rubbia e a Simon Van der Meer.
Il prossimo autunno entrerà in funzione al Cern, nello stesso tunnel del Lep, Lhc (Large Hadron Collider) che sarà la macchina più potente mai costruita, più potente anche del Tevatron di Chicago: al suo interno, due fasci di protoni da 7 TeV ciascuno si scontreranno tra loro.
La comunità scientifica ha grandi aspettative sui risultati che verranno. Sono passati meno di 80 anni dai primi passi nel mondo degli acceleratori: la strada è stata difficile ma coronata da molti successi. Mi pare che l’“invito” di Rutherford sia stato ampiamente accolto!

Biografia
Vittorio Giorgio Vaccaro, professore universitario, collabora con molti laboratori di acceleratori in Europa e negli Usa. Ha dato contributi fondamentali nel campo della dinamica dei fasci di particelle e della loro stabilità.

 

Link
http://en.wikipedia.org/wiki/Particle_accelerator
http://sci-toys.com/scitoys/scitoys/electro/electro6.html
http://nobelprize.org/nobel_prizes/physics/articles/kullander/
http://www-elsa.physik.uni-bonn.de/accelerator_list.html
http://www.lepp.cornell.edu/~dugan/USPAS/

 

 

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