[as] con altri occhi
La relatività sabbatica.

di Moni Ovadia, attore teatrale, musicista e scrittore

Per tutta la vita, ho avuto modo di vivere secondo le mie scelte e di realizzare progetti nutriti dalla passione, in cui credevo e che amavo. Pur attraverso molti travagli e difficoltà, sono approdato a una sintonia con me stesso di cui sono ragionevolmente soddisfatto e consapevole, sia sul piano professionale che su quello etico sociale. Ciononostante non ho potuto evitare di avere alle spalle alcuni grandi rimpianti. Uno dei più acuti è stato quello di non essermi dedicato in profondità a qualche aspetto della cultura scientifica e nella fattispecie alla fisica. Certo avrei potuto rimettermi a studiare, ma operare delle scelte significa optare per una gestione del proprio tempo e accettarne i limiti.
Dunque l'informazione divulgativa è il massimo livello di conoscenza a cui ho potuto accedere. Il culmine della frustrazione causato dalla mancanza di sapere scientifico per me è tuttora rappresentato dall'incapacità di capire autenticamente il significato della rivoluzione portata dalla teoria dell'universo di Albert Einstein. La figura del grande scienziato e umanista ha permeato di sé l'intero '900 e continua ad accompagnarci nel nuovo millennio. La sua immagine fa parte del repertorio iconico di centinaia di milioni di esseri umani in tutto il pianeta, è entrata nella cultura popolare ed è approdata al cinema e alla televisione anche nelle forme della fiction. Una storiella ebraica ha registrato a suo modo la teoria della relatività: un vecchio ebreo un giorno ha l'occasione di incontrare il professor Einstein e pieno di emozione gli domanda, "profèsor Einstein io sono un vechio e come ibreo sono molto orgolioso che lei è uno del nostri, ma non so il matematica e il fisica, potrebe lei mi spiegare il suo teoria del relatività?". Einstein gli risponde: "Guardi, mettiamola così! Se lei sta seduto su una poltrona con una splendida fanciulla nuda sulle gambe, un'ora le sembra un secondo, se invece lei sta seduto con il sedere nudo su una stufa arroventata, un secondo le sembra un'ora". A quel punto, assai perplesso il vecchio ebreo dice a Einstein: "Profèsor Einstein è con qvesto che lei si gvadagna da vivere?".
Ma umorismo a parte, che cosa c'è di ebraico in ciò che il genio della fisica ha prima intuito e poi elaborato in teoria scientifica? Non la sua prodigiosa intelligenza, né la sua statura etica che appartengono all'universale umano, cosa dunque? I miei studi amatoriali di ebraismo mi hanno portato a formulare una balzana ipotesi, ovvero, che l'avere postulato l'identità di spazio e tempo abbia una relazione con lo shabbat ebraico. L'orizzonte sabbatico inaugura la dimensione del tempo come spazio dell'umano in prospettiva extraterritoriale ed extratemporale. Lo spazio della terra, anche quello della terra di santità, nella celebrazione dello shabbat si fa da parte per accogliere la dignità dell'universalismo, che può esistere solo dove lo spazio dell'umano si identifica con il tempo dell'umano, dove il tempo dell'umano è lo spazio dell'umano, oltre i confini, oltre i limiti angusti e costrittivi del potere e dell'alienazione, al fine di accedere a uno spaziotempo che apre lo sguardo all'infinito degli universi. Lo shabbat con la sua inedita relazione spaziotempo introduce nella cultura dell'uomo i concetti di libertà e uguaglianza, sottraendolo alle idolatrie della produzione e del consumo, per affermare la priorità dello studio e della conoscenza nel quadro di una visione dell'essere umano come creatura integra e inviolabile. La mia ipotesi è certamente molto fantasiosa e tirata per i capelli, ma mi piace pensare che nel retroterra intimo della formazione di Einstein, lo spaziotempo sabbatico abbia potuto influire sull'intuizione della relatività.

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