[as] riflessi
Messaggeri dal sottosuolo.
di Francesca Scianitti
La massa della Terra è conosciuta con grande precisione, ma a causa della complessità della crosta terrestre e della sua estensione in profondità sappiamo molto poco sulla composizione del nostro pianeta. Abbiamo paradossalmente molte più informazioni sulle galassie primordiali, lontane nello spazio e nel tempo. Per questo, a fianco ai metodi tradizionali per la parametrizzazione della crosta e del mantello, quali il monitoraggio sismico o le perforazioni in profondità, possono dare un importante contributo metodi alternativi. Confermando un risultato analogo ottenuto dall’esperimento giapponese Kamland alcuni anni prima, nel 2009 i fisici dell’esperimento Borexino dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn hanno rivelato antineutrini elettronici prodotti da decadimenti radioattivi all’interno della crosta terrestre. “L’interesse dei geofisici italiani per i geoneutrini nasce in occasione di una conferenza tenutasi nel giugno 2010 ai Laboratori del Gran Sasso”, racconta Alessandro Amato, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). “La conferenza era stata organizzata per la presentazione dei risultati di Borexino, che aveva rivelato per la prima volta antineutrini provenienti dal mantello terrestre.
a.
Il rivelatore Borexino dal 2007 opera ai Laboratori del Gran Sasso. Oltre alla rivelazione dei geoneutrini, Borexino ha consentito di ottenere preziose informazioni sulla struttura del Sole e sulle proprietà dei neutrini solari.
Sembrò da subito un risultato molto promettente per lo studio del sottosuolo, perché apriva la strada alla misura diretta dei processi che avvengono in profondità nel nostro pianeta”. La maggior parte dei neutrini che raggiungono la Terra è prodotto dalla stella più vicina, il Sole, e dalle collisioni dei raggi cosmici in atmosfera. Oltre ai neutrini solari, obiettivo primario di Borexino, tra il 2007 e il 2009 l’esperimento ha potuto rivelare una decina di antineutrini provenienti dalla crosta terrestre. “Sulla base di un modello della crosta terrestre in cui si ipotizza la presenza di uranio e torio, e sapendo che i geoneutrini misurati da Borexino provengono sicuramente dal sottosuolo, è possibile risalire alla componente radiogenica (prodotta dai decadimenti radioattivi, ndr) del calore proveniente dal mantello terrestre. Questo fornirebbe informazioni dirette sulla composizione e struttura del mantello”, spiega Nicola Piana Agostinetti, ex ricercatore dell’Ingv, oggi principal investigator di un progetto europeo di geotermia presso il Dublin Institute for Advanced Studies. “È un’estrapolazione molto delicata che può essere fatta solo utilizzando un modello molto accurato della composizione e morfologia della crosta terrestre. Per ottenere un buon modello è necessario incrociare stime indipendenti prodotte da sismologi e geochimici ed eseguire delle perforazioni. Oltre i primi chilometri dalla superficie, tuttavia, la crosta diventa inaccessibile alle perforazioni e le uniche informazioni disponibili sono di tipo geofisico. Per questa ragione, sarebbe necessario affiancare al rivelatore una rete estesa di stazioni sismiche”. “Per l’analisi dei dati di Borexino è stato utilizzato un modello approssimato della crosta nei dintorni dei laboratori, ottenuto dai dati geologici regionali”, spiega Alessandro Amato. “Per migliorare tale modello, abbiamo iniziato ad analizzare i dati della stazione sismica interna ai laboratori che, grazie alla sua collocazione, è un’ottima stazione, soggetta a bassissimo rumore di fondo. Il suo contributo andrebbe integrato con i dati della rete di sismografi distribuiti nell’Italia centrale. Tali dati sono necessari inoltre per ricostruire un modello tridimensionale del mantello continentale, che risulta altrettanto importante nella stima del flusso di geoneutrini di Borexino”. Sebbene, in un primo lavoro, per i geoneutrini di Borexino sia stato utilizzato un modello della crosta molto semplificato, la misura ha permesso di escludere con buona approssimazione l’ipotesi, da tempo discussa, dell’esistenza di un reattore nucleare naturale alimentato da uranio nel nucleo del pianeta, capace di produrre gran parte del calore terrestre. Se questa ipotesi avesse reale fondamento, infatti, la quantità di antineutrini attesa dovrebbe essere paragonabile a quella dei neutrini emessi da una vicina centrale nucleare, di molto superiore a quella effettivamente rivelata. “A livello globale, lo sviluppo della tecnica consentirebbe di stimare il flusso di calore totale della Terra”, precisa Nicola Piana. “Infatti, disponendo di un modello accurato del contesto geofisico e di un certo numero di rivelatori più piccoli, diffusi sulla crosta terrestre, sarebbe possibile risalire all’intera componente radioattiva della massa della Terra, ricostruendo le immagini ottenute con i geoneutrini da ogni rivelatore locale”.
b.
L’esperimento giapponese Kamland studia le proprietà dei neutrini, osservando l’intenso flusso di queste particelle (visualizzato nella figura di sinistra) proveniente dalle centrali nucleari vicine (in rosso nella figura). Kamland ha anche permesso di identificare per la prima volta il debole flusso di geoneutrini (in azzurro), prodotti prevalentemente dai decadimenti dell’uranio e del torio all’interno della Terra.
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