[as] radici
I dati di Tycho.
di Paolo Rossi
fisico teorico e storico della scienza
Per molti secoli è stata l’astronomia la scienza che ha maggiormente raccolto e fatto uso di grandi moli di dati, e un esempio significativo degli straordinari risultati cui ha condotto questa pratica è la scoperta delle leggi di Kepler dei moti planetari, a partire dalle osservazioni compiute dal danese Tyge Ottesen Brahe (1546-1601). Di nobile famiglia, Brahe mostrò presto un forte interesse per l’astronomia. Tuttavia, sia in occasione dell’eclisse del 1560, sia per la congiunzione tra Giove e Saturno del 1563, egli notò la scarsa precisione delle predizioni basate sui dati disponibili ai suoi tempi. Si dedicò quindi a un loro sostanziale miglioramento, realizzando il grande osservatorio di Uraniborg. I risultati raccolti nell’arco di trent’anni gli permisero di sfatare l’immutabilità del mondo celeste, dimostrando che la supernova del 1572 e la cometa del 1577 dovevano essere molto lontane dalla Terra, in quanto la loro posizione nella volta celeste non mutava durante il giorno e quindi erano esterne al mondo sublunare, a differenza di quanto sostenuto da astronomi e filosofi. La precisione delle osservazioni di Tycho (il nome latino usato da Brahe) superava di un ordine di grandezza tutti i risultati precedenti, riducendo l’errore a un minuto d’arco, il meglio che si potesse ottenere a occhio nudo. Contrario all’ipotesi copernicana di una Terra in moto, Tycho cercò di conciliare i dati con il proprio pregiudizio formulando un modello in cui il Sole gira intorno alla Terra, ma i pianeti girano intorno al Sole. Il modello godette a lungo di una certa for tuna, soprattutto negli ambienti restii ad accettare la teoria eliocentrica. Un elemento “rivoluzionario” era comunque costituito dalla eliminazione delle “sfere” cristalline, incompatibili con l’esistenza di orbite destinate a incrociarsi. La fama dell’astronomo danese, che nel frattempo si era trasferito a Praga, raggiunse il giovane matematico tedesco Johannes Kepler (1571-1630), che gli fece visita all’inizio dell’anno 1600, ma solo a settembre fu accolto all’osservatorio, e comunque non ebbe accesso a tutti i dati che Brahe aveva accumulato e di cui era gelosissimo. Kepler aveva già dedicato parecchia attenzione all’astronomia, con un deciso orientamento copernicano, ma nella sua prima importante opera, il Mysterium Cosmographicum (1596) si era concentrato sull’esposizione di un modello del sistema solare in cui le orbite dei pianeti erano legate ai solidi platonici, e i risultati di Tycho gli servivano per tentare di suffragare la propria teoria. Al proprio maestro Michael Maestlin scrisse: “Tycho possiede le osservazioni più accurate esistenti al mondo, ma gli manca un architetto capace di costruire un edificio a partire dai suoi dati”. Per (nostra) fortuna il limitato compito che Tycho affidò a Kepler fu lo studio dell’orbita di Marte nel quadro del modello semi-eliocentrico. Kepler scommise che avrebbe impiegato otto giorni, ma in realtà gli ci vollero molti anni. In ogni caso la collaborazione non era destinata a durare a lungo, perché Tycho morì nell’ottobre del 1601. Agendo con spregiudicatezza, come egli stesso ammise, Kepler si impadronì dei dati prima ancora di essere nominato come successore di Tycho nel ruolo di astrologo imperiale. Poté così proseguire nel lavoro che era ormai il principale obiettivo della sua vita: la costruzione di un modello matematico dell’orbita di Marte che riproducesse con cura le osservazioni. È cruciale sottolineare che nella sua ricerca Kepler era guidato dall’esigenza, assai “moderna”, di individuare un meccanismo dinamico atto a giustificare la legge del moto dei pianeti. Poiché egli attribuiva la causa del moto a una “forza” originata dal Sole, il suo primo fondamentale progresso consisté nel riferire le posizioni dei pianeti al Sole stesso. Ciò gli permise, grazie ai dati di Tycho, di scoprire presto la “seconda legge”, per cui il raggio che va dal Sole al pianeta “spazza” aree uguali in tempi uguali. La relazione inversa tra velocità e distanza, associata al pregiudizio di un legame diretto tra forza e velocità, lo convinsero dell’esistenza di una forza decrescente come 1/r, contro la sua primitiva (e straordinaria) intuizione di una forza decrescente con 1/r2, la cui successiva dimostrazione avrebbe tuttavia richiesto la nozione di accelerazione centripeta e l’opera di Newton. Kepler per cinque anni esplorò ogni possibilità che consentisse di ricondurre l’orbita di Marte a una circonferenza, come emerge dal suo fondamentale trattato Astronomia nova (1609). Il suo miglior risultato, per quanto assai aderente alle osservazioni, mostrava tuttavia deviazioni fino a otto minuti d’arco, del tutto inaccettabili alla luce della precisione dei dati. Kepler si rassegnò quindi ad assumere che l’orbita potesse avere una forma ovoidale, e provò varie curve, arrestandosi sull’ellisse solo quando si accorse che in tal caso il Sole si sarebbe trovato esattamente in uno dei fuochi. L’accuratezza con cui quella scelta riproduceva i dati dell’orbita di Marte lo spinse a estendere senza altre verifiche questa sua “prima legge” a tutti gli altri pianeti. I dati di Tycho furono essenziali anche per giungere alla “terza legge”, che lega i quadrati dei periodi dei pianeti ai cubi dei semiassi maggiori delle orbite. Questa relazione non soddisfaceva Kepler, che dalla propria ipotesi sulla forza si sarebbe aspettato una relazione tra i periodi e i quadrati delle distanze, ma l’evidenza era inconfutabile. Volendo trarre dall’intera vicenda una “morale” epistemologica, e una lezione per l’attualità, possiamo dire che, come spesso è accaduto nella storia della fisica, i soli dati, per quanto accurati, non avrebbero permesso di giungere a una legge abbastanza generale e predittiva. I dati non bastano: occorre quasi sempre un solido pre-giudizio (attenti al trattino) teorico per costruire uno schema alla luce del quale interpretare i dati. Senza l’idea di una forza avente origine nel Sole, un’idea che nemmeno Galileo giunse a formulare o condividere, Kepler forse non sarebbe mai giunto a un risultato che non meno (e forse più) del cannocchiale “sgombrò primo le vie del firmamento”.
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