Einstein sotto esame
Alcune verifiche sperimentali della teoria della relatività.
di Danilo Babusci
A causa dell’effetto perturbante degli altri pianeti, l’orbita di un pianeta ruota lentamente su se stessa, assumendo la caratteristica forma a “rosetta” riprodotta in figura. L’effetto è molto piccolo: ad esempio, nel caso di Mercurio il tempo necessario perché l’ellisse compia una rotazione completa è di 23.143 anni terrestri.
Nello scorso secolo, con la sua teoria della relatività generale, Einstein ha rivoluzionato la fisica. Come tutte le teorie fisiche, anche la relatività è stata sottoposta a varie verifiche sperimentali. Vediamone alcuni esempi.
La precessione del perielio di Mercurio
In base alle osservazioni astronomiche, nei primi anni del’600 Keplero fu in grado di stabilire che l’orbita descritta da un pianeta del sistema solare è un’ellisse, con il Sole che ne occupa uno dei fuochi.Assumendo che un pianeta sia soggetto solo all’attrazione gravitazionale del Sole, il risultato di Keplero si ottiene facilmente per via matematica nell’ambito della teoria di Newton.
Ma anche gli altri pianeti esercitano un’attrazione gravitazionale sul pianeta in questione. Qual è l’effetto della loro presenza? Se si ripete il calcolo tenendo conto di questa complicazione, si scopre che l’attrazione esercitata da tutti gli altri pianeti del sistema solare sul pianeta in questione induce un avanzamento (una precessione), orbita dopo orbita, del perielio (il punto di massimo avvicinamento al Sole dell’orbita del pianeta). Anche la precessione dell’asse di rotazione terrestre dà luogo allo stesso effetto. Ad esempio, il perielio di Mercurio si sposta leggermente alla velocità di 5.600 secondi d’arco (circa1,6°) per secolo, nella stessa direzione in cui il pianeta ruota intorno al Sole. Tuttavia, tolto il contributo della precessione terrestre (5.025 secondi d’arco), quello dovuto all’attrazione degli altri pianeti, secalcolato secondo la fisica newtoniana, non è in grado di predire correttamente ciò che accade nella realtà: nel bilancio mancano 43 secondi d’arco.
Gli astronomi del XIX secolo tentarono di spiegare questa discrepanza tramite l’effetto perturbante di un pianeta, Vulcano, fino allora sfuggito all’osservazione, più piccolo di Mercurio e più vicino di questo al Sole. La ricerca di questo pianeta si rivelò, però, infruttuosa.
La svolta si ebbe nel 1915, quando Einstein applicò la versione definitiva della sua teoria della gravità al calcolo dell’orbita di Mercurio. La relatività generale, infatti, riproduce esattamente la precessione osservata, recuperando i 43 secondi d’arco che mancano alla predizione newtoniana!
Oltre a quella di Mercurio, in anni recenti si sono misurate con elevata precisione anche le precessioni di tutti gli altri pianeti del sistema solare. E i risultati sono in ottimo accordo con la relatività generale.
La luce viene deviata quando si propaga nella distorsione dello spaziotempo dovuta al campo gravitazionale di un oggetto di grande massa come il Sole. La posizione apparente della stella risulta dunque spostata rispetto a quella reale: questo spostamento è visto dalla Terra sotto un angolo molto piccolo, pari a quello sotto cui vedremmo una moneta di un euro da una distanza di circa 2,5 km.
La deflessione gravitazionale della luce
Nella relatività generale la gravità è interpretata non come una forza, ma come la manifestazione della geometria dello spaziotempo. La Terra orbita intorno al Sole non a causa di un’imprecisata forza attrattiva, ma perché si muove in uno spaziotempo, distorto dalla presenza del Sole. È naturale quindi ipotizzare che la gravità influenzi non soltanto il moto dei corpi dotati di massa, ma anche la propagazione della luce.Per confermare questa previsione, Einstein suggerì di misurare la deflessione subita dalla luce proveniente dalle stelle lontane che nell’arrivare a noi si trovano a passare radenti al disco solare. Secondo le sue equazioni questa deflessione doveva essere di 1,75 secondi d’arco.
Ma come possiamo osservare delle stelle vicine al Sole, senza che la sua luce accechi il nostro telescopio? Semplice…basta compiere l’osservazione durante un’eclissi solare, quando la Luna oscura la luce solare e le stelle divengono visibili: il Sole c’è… ma non si vede!
L’esperimento consiste, quindi, nel confrontare la posizione della stella durante l’eclissi con quella reale ottenuta osservando il cielo notturno sei mesi prima o dopo l’eclisse, quando il Sole e la stella si trovano dalla parte opposta rispetto a noi. Una differenza fra queste due posizioni è una prova diretta dell’effetto del campo gravitazionale del Sole sulla propagazione della luce. Le osservazioni vennero condotte nel 1919 dall’astronomo inglese Eddington e dai suoi collaboratori e lo spostamento delle stelle era chiaramente visibile e in accordo con la previsione teorica di Einstein.
Nell’astrofisica moderna le misure della deflessione della luce sono alla base della tecnica delle lenti gravitazionali per determinare la quantità di materia, visibile e oscura, presente all’interno degli ammassi di galassie (vd. n. 4 di Asimmetrie). Un altro test strettamente connesso alla deflessione della luce è quello noto come ritardo temporale di Shapiro, dal nome del fisico americano che lo propose nel 1964, ben 50 anni dopo la teoria di Einstein.
Come osservato da Shapiro, secondo la relatività generale un segnale luminoso si propaga all’interno di un campo gravitazionale più lentamente di quanto faccia nel vuoto. Quindi, se misuriamo il tempo che un segnale radar (radiazione elettromagnetica, al pari della luce) impiegaa coprire la distanza tra due pianeti, questo tempo deve essere maggiore se lungo il tragitto il segnale è costretto a passare in prossimità del Sole. (In questa circostanza è trascurabile l’incremento nel tempo di percorrenza dovuto al fatto che la traiettoria, poiché curva, è piú lunga).
In particolare, per il tragitto Terra-Venere (e ritorno), quando i due pianeti sono da parti opposte rispetto al Sole, si misura un ritardo di circa 200 microsecondi (su un tempo di percorrenza totale di circa 1.000 secondi), in ottimo accordo con il calcolo di Shapiro.
Il redshift gravitazionale della luce
Il fenomeno del redshift gravitazionale fu inizialmente proposto da Einstein come verifica della sua teoria della gravitazione, ma oggi è considerato, piuttosto, una prova del principio di equivalenza (vd. approfondimento “Il principio di equivalenza”, ndr).
Consideriamo una lampada posta sulla punta di un razzo in accelerazione, che irradia (in direzione opposta al moto), ad esempio, un fascio di luce verde, che è osservato da un astronauta seduto sul pavimento del razzo. A causa dell’accelerazione del razzo, la velocità dell’astronauta aumenterà nell’intervallo di tempo che intercorre tra l’emissione della luce e la sua osservazione.
L’esistenza di un moto relativo tra ricevitore (l’astronauta) e sorgente (la lampada) al momento dell’emissione comporta uno spostamento verso il blu (blueshift) della luce, ovvero diminuisce la sua lunghezza d’onda e, quindi, aumenta la sua frequenza. L’astronauta vedrà dunque il fascio di luce di un verde un po’ più tendente verso l’azzurro! Secondo il principio d’equivalenza, l’accelerazione dell’astronave è indistinguibile da un campo gravitazionale diretto verso il pavimento. Quindi, se scegliamo per l’astronave un’accelerazione di 9,8 m/s2 la situazione che si presenta agli occhi dell’astronauta coincide con ciò che vedeun osservatore sulla superficie della Terra che riceve la luce emessa da una lampada posta sul soffitto del laboratorio in cui si trova: la luce che “cade” in un campo gravitazionale, cioè si propaga verso la sorgente del campo, diminuisce la sua lunghezza d’onda. Viceversa, la luce che si “arrampica” in un campo gravitazionale, cioè si allontana dalla sorgente del campo, è spostata verso il rosso (redshift), ovvero aumenta la sua lunghezza d’onda e si parla di redshift gravitazionale della luce (la luce si “arrossa”). La verifica sperimentale dell’esistenza di tale redshift è stata eseguita per la prima volta dai fisici americani Pound e Rebka nel 1959.
Nell’esperimento vennero usate due sorgenti radioattive (57Fe), che emettono fotoni di una energia fissata. Queste due sorgenti erano poste una in cima e l’altra alla base di una torre alta 22,5 m situata all’interno del campus dell’università di Harvard. Se non esistesse il blueshift gravitazionale, i fotoni che emette la sorgente in cima alla torre dovrebbero cadere nel campo gravitazionale terrestre ed essere completamente assorbiti dalla sorgente posta alla base (tramite il processo inverso del decadimento).
Ma questo non accadde. Si osservò, invece, che questo processo di assorbimento si verificava soltanto imprimendo alla sorgente in cima alla torre una certa velocità. Veniva così prodotto uno spostamento Doppler che compensava quello gravitazionale. Dalla velocità che occorreva impartire alla sorgente affinché si verificasse l’assorbimento fu poi possibile risalire al valore dello shift (spostamento) gravitazionale. Questo risultò in perfetto accordo con la previsione fornita dalla relatività generale, fornendo una sua ulteriore verifica sperimentale.
Tutto è relativo, anche il Gps
1. Illustrazione artistica del Gnss. Nel Gps-2 i satelliti si scambiano fra di loro e con le stazioni a terra fasci di microonde sferiche (in giallo). Grazie al tracciamento laser (in verde, p.es. dalla stazione dell’Agenzia Spaziale Italiana di Matera), alla cui calibrazione contribuisce anche l’Infn con un esperimento tecnologico interdisciplinare presso i Laboratori Nazionali di Frascati (Etrusco - Extra Terrestrial Ranging to Unified Satellite COnstellations) la posizione dei satelliti di Galileo sarà misurata con una precisione di circa un centimetro. |
Se guardassimo la Terra dallo spazio, ci accorgeremmo che nella sua orbita si trovano oggi tantissimi satelliti. Molti di questi fanno parte del Global Navigation Satellite System (Gnss), comunemente noto sotto la vecchia sigla Gps (Global Positioning System). Questa tecnologia ci permette di conoscere l’esatta posizione di un oggetto sulla Terra, sul quale è installato un ricevitore Gps. Le applicazioni sono ormai note a tutti, ma non tutti sanno che senza la teoria della relatività generale di Einstein la tecnologia alla base del Gps non funzionerebbe correttamente. Il Gps ha a bordo orologi atomici al cesio e rubidio precisi e affidabili, i cui tempi sono inviati alla velocità della luce ad altri satelliti e alla Terra. Conoscendo l’esatta posizione di quattro satelliti e il tempo impiegato dal segnale per raggiungere il ricevitore, è possibile determinare la posizione nello spazio del ricevitore stesso. Tale procedimento è chiamato di triangolazione. Tuttavia, le triangolazioni non bastano, dato che gli orologi satellitari sono affetti dalle conseguenze della relatività. Il tempo sul satellite, infatti, scorre a un ritmo leggermente più veloce che a terra, perché la vicinanza di una grande massa fa rallentare gli orologi. D’altra parte, il tempo sul satellite, per un osservatore sulla Terra, scorre più lentamente, a causa degli effetti della relatività ristretta. Ma prevale l’effetto della relatività generale, rendendo necessaria una correzione automatica da parte dell’elettronica a bordo del satellite. Altrimenti, a causa della differenza tra lo scorrere del tempo sul satellite e sulla Terra, il calcolo della distanza tra il satellite stesso e il ricevitore introdurrebbe un errore di quasi 25 m dopo due minuti e di quasi 18 km dopo un giorno (equivalente a due orbite complete del satellite)! Dato che l’effetto relativistico rilevato è esattamente corrispondente a quello calcolabile teoricamente, almeno nei limiti di accuratezza forniti dagli strumenti di misura attualmente disponibili, il Gps ci fornisce dunque un’ulteriore verifica sperimentale dell’esattezza della teoria della relatività. Attualmente sono operative due costellazioni di satelliti: il Gps-2 (statunitense) e il Glonass (russo) con 24 satelliti, rispettivamente all’altitudine di 20.000 e circa 19.000 km. A esse si aggiungerà nel 2012 l’europeo Galileo (30 satelliti) e più tardi ancora un rinnovato sistema di satelliti statunitense, il Gps-3. Gps, Glonass e Galileo formano il sistema di navigazione satellitare globale Gnss. [Simone Dell’Agnello] Biografia Simone Dell’Agnello, ricercatore presso i laboratori di Frascati, ha lavorato nella fisica delle particelle per circa 20 anni al Fermilab (nell’esperimento Cdf, tesi di dottorato sulla scoperta del quark top) e poi a Frascati (nell’esperimento Kloe). Dal 2005 si occupa di gravitazione, geodesia spaziale e navigazione satellitare. Link International GNSS Service (IGS) http://igscb.jpl.nasa.gov/ International Earth Rotation and Reference System Service (IERS) www.iers.org/ |
Il principio di equivalenza
1. |
Lasciate la penna: questa cade a causa della presenza del campo gravitazionale terrestre. Tale semplice osservazione non desta alcuna sorpresa. Immaginiamo ora di essere all’interno di un’astronave molto lontana da qualunque sorgente di gravità. Il motore è acceso e l’astronave sta viaggiando con accelerazione g uguale a quella dovuta alla gravità sulla superficie della Terra. Se lasciate la penna questa cadrà nella direzione opposta a quella in cui è diretta l’astronave con la stessa accelerazione che avrebbe sulla Terra. È quello che vi sareste aspettati? Stare seduti sul divano di casa vostra può essere esattamente uguale a essere seduti all’interno di un’astronave che viaggia con accelerazione costante. Vediamo un altro esempio. Supponiamo di essere all’interno di un ascensore nella non auspicabile circostanza che il cavo si rompa. L’ascensore e il suo contenuto (voi compresi) sarà in caduta libera con accelerazione g: il pavimento non eserciterà alcuna forza su di voi e voi non eserciterete alcuna reazione su di esso, divenendo così privi di peso. Se lasciate ciò che tenete in mano, questo rispetto a voi semplicemente non cadrà. è come se nel vostro sistema di riferimento la gravità fosse scomparsa, poiché tutto il sistema è sottoposto alla stessa accelerazione, pari a g. Il principio di equivalenza ci dice in effetti che una forza inerziale (ovvero una accelerazione costante) è in grado di simulare una forza gravitazionale e che d’altra parte un sistema di riferimento in caduta libera è del tutto equivalente a uno inerziale, in cui non sono presenti forze esterne. Il principio di equivalenza non costituisce un’acquisizione recente nella storia della scienza. Già Galileo ne aveva dato una prima formulazione dicendo che tutti i corpi, indipendentemente dalla loro composizione, cadono con la stessa accelerazione sotto l’influenza della gravità. Ciò afferma implicitamente l’uguaglianza tra massa inerziale, ovvero la resistenza che un corpo offre alla variazione del suo stato di moto e massa gravitazionale, che è la “carica” o sorgente del campo gravitazionale. Infatti solo se queste due masse, che chiameremo mi ed mg sono uguali, la forza che l’attrazione gravitazionale esercita su corpi di natura diversa è tale da imprimere loro la stessa accelerazione (come si deriva dalla seconda legge di Newton F = ma). Einstein elevò poi al rango di principio questa equivalenza, mostrando come ne derivasse che un sistema di riferimento in caduta libera è del tutto indistinguibile da uno inerziale. Galileo fu quindi il primo a sostenere l’indipendenza della caduta dalla natura dei corpi e a porsi il problema di determinare fino a che punto mi fosse numericamente uguale a mg, ovvero di accrescere la precisione sperimentale a cui il principio di equivalenza risulta verificato. Da Galileo e Newton, che effettuarono esperimenti con pendoli di diversa composizione, fino a von Eötvös, che alla fine dell’800 utilizzò invece delle bilance di torsione (vedi figura), l’accuratezza con cui la differenza tra mi e mg era misurata passò da una parte su mille a una parte su un miliardo. La stessa tecnica perfezionata è stata utilizzata fino ai giorni nostri, arrivando attualmente ad una precisione sperimentale della misura di una parte su 10.000 miliardi. La verifica del principio di equivalenza d’altronde assume oggi un’ulteriore importanza, poiché ad esso viene ricondotta l’inconciliabilità tra la teoria della relatività generale di Einstein e il Modello Standard delle particelle elementari, che formano assieme la nostra attuale visione del mondo fisico. |
Biografia
Danilo Babusci è ricercatore presso i Laboratori Nazionali di Frascati. Ha speso parte della sua carriera scientifica nel campo della rivelazione della onde gravitazionali sia con rivelatori risonanti (Nautilus ed Explorer) che interferometrici (Virgo).
[scarica pdf]
{jcomments on}