• [as] radici - L'equazione di Dirac.

    [as] radici
    L'equazione di Dirac.

    di Enrico Bellone, direttore de Le Scienze

    a.
    Dirac alla lavagna, nei primi anni ’30 dello scorso secolo.
    Siamo alla fine del 1927 e la comunità dei fisici ha molti problemi da risolvere. Uno di questi riguarda una proprietà enigmatica dell’elettrone che è stata battezzata con il nome spin e che consiste nella presenza di due numeri quantici, pari a + ½ e – ½. In termini di senso comune, l’elettrone si comporta come se potesse ruotare intorno a un asse in un senso e in quello opposto: un modo intuitivo di descrivere il fatto per cui questa particella ha lo spin. Ma l’intuizione non è un buon argomento. Essa permette certamente di costruire un modello di elettrone, presumendo che la particella abbia una forma geometrica tale da consentire rotazioni attorno a qualcosa. Altrettanto certamente, però, una teoria sull’elettrone non può partire da un modello di questo genere. Deve essere una teoria matematica, e su questo c’è un ampio consenso. Il giovane Paul A.M. Dirac ha, in generale, una posizione molto precisa: dobbiamo usare tutte le potenzialità della “matematica pura” con lo scopo di generalizzare la base formale della fisica teorica, e solo dopo possiamo tradurre i risultati matematici in un linguaggio che parla di “entità fisiche”. Quale entità fisica è allora in gioco? Nel caso dell’elettrone, la modellistica suggerisce che esso sia un oggetto corporeo e quindi dotato di dimensioni. Ma, come osserva Dirac nel 1928, non è affatto chiaro il motivo per cui “la Natura dovrebbe aver scelto questa particolare struttura per l’elettrone, invece di essere soddisfatta della carica puntiforme”. La vera questione sta invece nella necessità di superare “l’incompletezza delle precedenti teorie” e di sviluppare un sistema matematico che soddisfi sia i requisiti della teoria della relatività, sia quelli della teoria dei quanti. Il superamento si realizza con un capolavoro, intitolato The Quantum Theory of the Electron, che Dirac pubblica appunto nel 1928.
    È impossibile descrivere questo capolavoro senza ricorrere all’armamentario della matematica. In linea di massima, si può comunque ricordare che Dirac riprende certe matrici già impiegate da Wolfgang E. Pauli, in contesto quantistico, per esprimere certe proprietà dello spin. Quelle matrici, ora, devono per Dirac rispettare anche le clausole relativistiche sulle simmetrie fra spazio e tempo. Le matrici di Pauli erano a due righe e due colonne, quelle di Dirac sono a quattro righe e quattro colonne. Fatta questa operazione, altri passi puramente algoritmici sfociano necessariamente in una nuova equazione generale per l’elettrone. Per valutare lo spin era allora indispensabile esplicitare il comportamento dell’elettrone in un campo elettromagnetico. Un comportamento matematico, s’intende. Che culminava in un successo e in un nuovo enigma. Il successo stava nella deducibilità dello spin da un punto di vista puramente teorico. L’enigma era inatteso e riguardava proprio le soluzioni matematiche dell’equazione di Dirac. Esse infatti formavano una famiglia che, inaspettatamente, era formata da due sottofamiglie di pari entità. Solo una era tuttavia da prendere in considerazione: l’altra “metà delle soluzioni deve essere scartata in quanto si riferisce alla carica + e”. E dovrebbe essere scartata perché nessuno ha mai osservato in Natura un elettrone con carica positiva.
    Ma l’operazione di rigetto non era comunque ammissibile nella cornice della teoria quantistica. Quest’ultima non poteva infatti scartare a priori eventi connessi alla “altra metà” delle soluzioni e che implicavano la possibilità di salti quantici tra livelli energetici descrivibili come positivi o negativi. In un primo momento, quindi, parve giusto a Dirac sostenere che la sua teoria fosse da valutare come una “approssimazione”. Le carenze stavano tutte quante nella base empirica. La teoria di Dirac aveva in realtà scoperto il positrone, ma dovevano trascorrere alcuni anni prima che Carl D. Anderson, e soprattutto Patrick M. Blackett e Giuseppe Occhialini, nel 1933 scovassero le prove sperimentali di quella “approssimazione”. Nell’intervallo fra il 1928 e il 1933 molti furono i tentativi di fornire una interpretazione accettabile delle previsioni fatte da Dirac. Per tutti noi, ad ogni modo, quell’articolo di Dirac rimane come uno dei punti più alti della storia della cultura umana.

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  • La Fisica, la Bellezza e l'Antimateria

    La Fisica, la Bellezza e l'Antimateria
    La storia enigmatica dell’antimateria e della simmetria nell’Universo.
    di Andrea Vacchi

    a.
    Il quadro Day and Night di M. C. Escher. Il positrone, la controparte di antimateria dell’elettrone, fu inizialmente immaginato come una lacuna nel mare di Dirac. Una scatola piena di elettroni, salvo un piccolo spazio, può essere vista come una scatola vuota con un positrone in quello stesso spazio.
    Nell’estate del 1931 Wolfgang Pauli assisteva a un seminario di Robert Oppenheimer sul lavoro del fisico teorico Dirac. Si racconta che, nel bel mezzo di quella lezione, scattò in piedi, afferrò un pezzo di gesso camminando verso la lavagna, e lì davanti si fermò brandendolo come per intervenire, poi disse: “Ach nein, das ist ja alles falsch!”… tutto questo è certamente sbagliato! Più tardi Pauli scrisse, a proposito della spiegazione che Dirac dava dei risultati della sua teoria,“non crediamo che tutto questo debba essere preso sul serio”.
    Di carattere molto schivo, ai limiti della scontrosità, quando nel 1933 Paul Dirac seppe di aver ricevuto il premio Nobel la sua prima tentazione fu di rinunciare al riconoscimento. Accettò solo davanti all’obiezione di Ernest Rutherford, Nobel nel 1908, che il rifiuto avrebbe suscitato una pubblicità perfino maggiore. Aveva 31 anni e la convinzione che le leggi fondamentali della Natura fossero pervase da una bellezza matematica che resta tale da qualsiasi punto di vista e sempre. In quel periodo la recente teoria della meccanica quantistica spiegava come il mondo delle cose molto piccole seguisse leggi diverse da quelle suggerite dal nostro intuito: la meccanica quantistica è una delle maggiori rivoluzioni nella fisica del ventesimo secolo e, anche se può apparire bizzarra e lontana dall’intuito, è probabilmente la descrizione della Natura più vicina alla realtà. Nel frattempo, Einstein proponeva la sua teoria della relatività speciale, dove si mostrava come lel eggi che descrivono cose molto veloci sfidino i nostri criteri di buonsenso e che la materia è una tra le tante forme di energia. Nel 1927, Paul Dirac fece il passo fondamentale per accordare fisica quantistica e teoria della relatività speciale di Einstein, introducendo un’equazione in grado dispiegare il comportamento degli elettroni ad ogni velocità, fino alla velocità della luce: quale è la giusta descrizione dell’elettrone come onda quantica? E quale l’equazione che governa la dinamica di queste onde, rispettando le regole della relatività? Il lavoro di Dirac era volto a descrivere la Natura attraverso una formula che rispettasse un’estetica nella matematica. Gli capitò di dire: “È più importante arrivare a equazioni belle che ottenere da esse la riproduzione di osservazioni sperimentali”. Questa impostazione lo condusse a risultati spettacolari. È fondamentale che l’esperimento confermi una teoria scientifica, ma certe teorie appaiono troppo belle per essere scartate, anche se restano in attesa di una conferma sperimentale. Semplicità ed eleganza sonole caratteristiche che appaiono quando una teoria è sviluppata con il minimo numero di assunzioni, quando è universale e descrive fenomeni ai quali non era diretta in origine.
    b.
    Un ritratto di Paul Dirac.

    Dirac amava la montagna: tra le sue ascensioni si ricorda il monte Elbruz nel Caucaso. Si preparava a queste escursioni arrampicandosi sugli alberi nelle colline attorno a Cambridge, vestito degli stess iabiti scuri che usava nel campus. Se per gli artisti la bellezza è spesso soggettiva, nella scienza si cercano equazioni che mantengano la loro forma anche attraverso trasformazioni che le adattano ai diversi sistemi di riferimento. L’equazione della sfera, ad esempio, non cambia quando le coordinate sono invertite: la sfera resta tale vista da qualunque prospettiva, anche attraverso uno specchio. La sua affermazione sull’importanza della bellezza era diretta a Erwin Schrödinger. Dirac era dell’avviso che Schrödinger avrebbe dovuto continuare il suo sviluppo teorico senza curarsi degli esperimenti. Egli fece in questo modo, arrivando a scoprire un’equazione consistente con la relatività, ma in una forma matematica nuova, insolita per la maggior parte dei fisici di allora. È un’equazione che ha la stessa forma in ogni sistema di riferimento e resta invariata nelle trasformazioni di spazio e tempo richieste dalla teoria della relatività.
    Il lavoro di Dirac, intitolato La Teoria Quantistica dell’Elettrone, fu pubblicato ottanta anni fa, nel febbraio del 1928. Lo sviluppo che vi si proponeva portava alla sua equazione, in grado di fornire una spiegazione naturale per le caratteristiche dell’elettrone come lo spin, ma conduceva anche a risultati sorprendenti e apparentemente paradossali: ogni soluzione in cui l’elettrone aveva una prevedibile energia positiva, permetteva una controparte con energia negativa, stati a energia negativa che apparivano come particelle con numeri quantici inversi rispetto alla materia “normale”: tutti lo ritenevano innaturale, impossibile.
    Furono necessari tre anni di ipotesi e discussioni e finalmente nel 1931, interpretando i suoi risultati, Dirac intuì e propose l’esistenza dell’antielettrone, chiamato anche positrone, una particella con la stessa massa e lo stesso spin dell’elettrone, ma con carica elettrica opposta.
    Era un’ipotesi ardita nata come risultato di una formulazione teorica che diede luogo, tra i fisici, a discussioni infuocate. Dirac predisse, inoltre, che se un elettrone avesse incontrato un antielettrone, la coppia si sarebbe dovuta annichilare e la massa ricombinata trasformarsi in radiazione, così come richiesto dalla celebre equazione di Einstein E = mc2. Una simile particella era sconosciuta.
    Dirac formulò l’ipotesi che in altre parti dell’Universo le cariche positive e negative fossero invertite, che esistesse quindi un Universo di antimateria. L’insistere sulla consistenza e bellezza della teoria portava a immaginare aspetti inattesi della Natura. Naturalmente questo richiedeva un’intelligenza intuitiva straordinaria, che certo a lui non mancava.

    c.
    Carl Anderson vicino alla camera a nebbia con cui scoprì il positrone nel 1932.

    Nel 1932, mentre studiava le tracce lasciate dalle particelle dei raggi cosmici nel suo rivelatore, la camera a nebbia, Carl Anderson notò che alcune di esse, pur avendo tutte le caratteristiche lasciate di solito dagli elettroni, reagivano al campo magnetico come se avessero carica opposta. Si trattava della prima chiara evidenza sperimentale dell’esistenza di una particella di antimateria, l’antielettrone di Dirac. Una scoperta sensazionale: l’antielettrone previsto dai risultati dell’equazione di Dirac era stato identificato senza possibilità di errore. Un trionfo esaltante per la fisica teorica che vide confermata dall’esperimento la sua predizione, frutto di immaginazione e bellezza matematica.

    [as] approfondimento
    Il mistero dei raggi cosmici

    1.
    Questo strumento è una delle camere a nebbia usate da Carl Anderson in un forte campo magnetico. Millikan aveva chiamato la linea sperimentale, impostata attorno al 1930 con l’uso di questi strumenti, study of cosmic rays, the birth cries of the universe, ossia “studio dei raggi cosmici, il primo vagito dell’Universo”.
     

    2.
    La famosa fotografia del 1932: raffigura il positrone che entrando dal basso attraversa uno spessore di piombo perdendo energia. Una minore energia, infatti, determina una maggiore curvatura della traccia nel campo magnetico. L’elettrone avrebbe avuto una curvatura opposta.
     

    La più naturale sorgente di antimateria era, allora come oggi, la radiazione proveniente dal Cosmo. Già nel 1912 Victor Hess, salendo a 5.000 metri con un pallone aerostatico, aveva notato che la ionizzazione prodotta sui suoi strumenti dalla radiazione cresceva aumentando la quota. “I risultati delle mie osservazioni si spiegano perfettamente supponendo che una radiazione di grandissimo potere penetrante entri dall’alto nella nostra atmosfera […]”, scrisse più tardi. Una pioggia incessante di particelle provenienti dallo Spazio colpisce la Terra: sono i raggi cosmici, l’unico contatto materiale con la Galassia e l’Universo. Come e dove nascono? In che modo raggiungono la loro energia? Fuori dell’atmosfera terrestre i raggi cosmici sono particelle di ogni tipo: i più abbondanti sono protoni (i nuclei di idrogeno), poi nuclei di elio e di elementi più pesanti. Il campo magnetico della Terra ne devia la traiettoria in modo più o meno importante in base alla loro energia. Arrivando negli strati alti dell’atmosfera e urtando contro le molecole dell’aria, i raggi cosmici primari producono uno sciame, una vera e propria cascata di particelle secondarie, ricca anche di antiparticelle. La natura delle particelle, nello sciame prodotto dai raggi cosmici, muta mentre esse sprofondano nell’atmosfera. Per questo, per poterne studiare le caratteristiche originarie, da sempre i fisici portano i loro strumenti in alta quota. Carl Anderson usava la camera a nebbia, uno strumento studiato da Charles Wilson, che permetteva di fotografare la traccia lasciata in un gas dalle particelle prodotte dai raggi cosmici. Nata per studiare la formazione delle nuvole, consisteva di un cilindro riempito d’aria, chiuso all’estremità da un pistone. Lo spostamento veloce del pistone causava un’espansione del volume della camera con un conseguente calo di temperatura dell’aria satura di vapore acqueo, e questo induceva la formazione di minuscole gocce liquide. Wilson aveva scoperto che le cariche elettriche (ioni) prodotte dal passaggio delle particelle nel gas agivano da centri di condensazione.

    3.
    Il lancio dall’Antartico di un moderno pallone stratosferico. Sgonfio, il pallone è alto come la torre Eiffel, mentre gonfio ha un diametro di 176 metri. Tra gli obiettivi dell’esperimento Bess-Polar c’è quello di chiarire il puzzle dell’asimmetria materia-antimateria studiando l’antimateria nei raggi cosmici.
    4.
    Lord Rutheford definì la camera a nebbia o di Wilson “il più originale e meraviglioso strumento della storia della scienza”. Nella camera a nebbia la radiazione entra in una camera di espansione che contiene un gas saturo di vapor d’acqua. L’espansione causata dal pistone raffredda il gas e si formano gocce di vapore attorno agli ioni prodotti dal passaggio delle particelle. La camera a bolle (vd. fig. 4), che valse il premio Nobel a Glaser nel 1960, è lo strumento complementare alla camera a nebbia. Levando il tappo a una bottiglia d’acqua minerale, abbassiamo la pressione e si formano bolle di gas. Nella camera a bolle un liquido è mantenuto a una temperatura prossima al punto di ebollizione. Se la pressione è tolta rapidamente dalla camera con il movimento del pistone il liquido avrà la tendenza a bollire. La particella che attraversa il liquido genera degli ioni sul suo tragitto e questi agiscono da punti di origine di piccole bolle. Una fotografia potrà riprendere la traccia e l’interazione della particella come se si trattasse di un fuoco d’artificio.

    Questa prova sperimentale fu confermata pochi giorni dopo da Patrick Blackett e Giuseppe Occhialini che, con uno strumento simile ma reso più selettivo dall’impiego di circuiti elettronici molto avanzati (la specialità del giovane Occhialini), osservarono due fenomeni già previsti da Dirac: la generazione di coppie di elettroni e positroni prodotti direttamente dalla radiazione, e l’annichilazione, il processo nel quale particelle e antiparticelle riunite sparivano emettendo radiazione.
    Nella lezione che tenne, ricevendo il premio Nobel nel 1933, Dirac ipotizzò l’esistenza dell’antiprotone, o protone negativo. Gli acceleratori di particelle oggi generano antiprotoni, antineutroni e antimesoni. Nella visione di Dirac, come verificato dalla fisica sperimentale, ogni particella elementare ha un complementare, un’antiparticella. Se l’elettrone è un piccolo rilievo, una goccia nello spazio, la sua antiparticella, il positrone, è una fossa, una lacuna. Particella e antiparticella possono essere create o distrutte solo in coppia e la loro somma è radiazione. Questi eventi di creazione e annichilazione di coppie si realizzano oggi normalmente nei grandi acceleratori e vengono osservati con raffinati strumenti negli apparati sperimentali.
    L’equazione di Dirac, una delle cattedrali della scienza, spianò la strada allo studio dell’antimateria e inaugurò un periodo fertilissimo di scoperte. La caccia alle antiparticelle era iniziata. Il passo successivo era dimostrare l’esistenza dell’antiprotone. Questa era messa in dubbio da un valido argomento: nell’Universo non c’è simmetria tra materia e antimateria. Inoltre, per produrre l’antiprotone è necessaria un’energia molto maggiore a quella necessaria a produrre positroni.

    c.
    Il laboratorio Berkeley come appariva nel 1955. Il Bevatron si trova sotto la cupola centrale.
    d.
    Da sinistra Emilio Segrè, Clyde Wiegand, Edward Lofgren, Owen Chamberlain e Thomas Ypsilantis, i componenti del gruppo che scoprì l’antiprotone. Lofgren era responsabile dell’acceleratore.

    Nel 1955 a Berkeley, in California, fu messo in funzione il più potente acceleratore mai costruito fino a quel momento (vd. Asimmetrie n. 6, ndr). Proposto da Ernest Lawrence, il Bevatron era capace di raggiungere 6,2 GeV (allora il miliardo di elettronvolt, il GeV di oggi, era chiamato BeV, da cui il nome dell’acceleratore). Lawrence era cosciente del fatto che questa era l’energia necessaria per superare la soglia di produzione degli antiprotoni.
    Emilio Segrè era stato il primo studente a laurearsi con Fermi all’Università di Roma. Anche Owen Chamberlain aveva studiato con Fermi ed era diventato poi assistente di Segrè durante il progetto Manhattan. Insieme progettarono un labirinto di magneti e contatori elettronici attraverso i quali potevano passare solo antiprotoni. L’ingegnoso esperimento usava rivelatori e dispositivi elettronici che per l’epoca erano di frontiera. “Dovemmo selezionarli e pesarli in molto meno di un milionesimo di secondo”, spiegò in seguito Segrè.
    Nell’ottobre del 1955, lui e i suoi collaboratori bombardarono un bersaglio di rame con i protoni accelerati dal Bevatron. Si contarono 60 particelle identiche ai protoni, ma con carica elettrica negativa: 60 antiprotoni!

    e.
    Un antiprotone (traccia colorata artificialmente in azzurro) entra in una camera a bolle dal basso e colpisce un protone. L’energia rilasciata nell’annichilazione produce quattro particelle positive (pioni in rosso), quattro particelle negative (pioni in verde). La traccia gialla è un muone, prodotto di decadimento di uno dei pioni da cui ha origine. I ricci blu sono prodotti da elettroni di bassa energia, da reazioni che non hanno a che vedere con l’antiprotone.
    f.
    L’evento chiamato “Faustina”, trovato nel febbraio 1955 dal gruppo di ricerca guidato da Edoardo Amaldi in una delle emulsioni fotografiche esposte ai raggi cosmici durante la spedizione in Sardegna del 1953, è interpretabile come processo di “produzione, cattura e annichilamento di un protone negativo”.

    Iniziarono anche altre ricerche indirizzate, ad esempio, verso la scoperta del primo antinucleo (vd. “Primo passo verso l’antinucleo” p. 12, ndr), e si scatenò da allora la fantasia dei narratori di fantascienza e non solo. La stampa locale, il Berkeley Gazette, usciva con un titolo preoccupato: “Minacciosa scoperta all’Università di California”.
    Pare che al giornalista fosse stato detto che un antiprotone avrebbe causato l’esplosione di chi ne fosse venuto a contatto. Oggi miliardi di antiprotoni vengono prodotti normalmente al Cern di Ginevra e al laboratorio Fermi di Chicago, senza alcun pericolo. Poco dopo la scoperta dell’antiprotone Oreste Piccioni individuò l’antineutrone. Erano anni di vera passione scientifica tra grandi scoperte teoriche e sperimentali. Oreste Piccioni ebbe un importante ruolo anche nella scoperta dell’antiprotone, come ricordarono Segrè e Chamberlain nel ricevere il premio Nobel. Ma il suo contributo di grande fisico sperimentale resta storicamente l’elegantissima misura che, studiando la reazione di scambio della carica in cui un protone e un antiprotone danno un neutrone e un antineutrone, dimostrò l’esistenza dell’antineutrone. La teoria di Dirac richiede che ogni particella abbia un partner di antimateria di massa uguale e carica elettrica opposta. Ogni particella ha la sua “anti”. I protoni sono composti da quark.
    Analogamente gli antiprotoni sono composti da antiquark. In questo modo è possibile produrre la famiglia completa di antiparticelle. Vengono chiamate particelle di Dirac le particelle che hanno un complementare di antimateria. Nel 1937 il giovane fisico Ettore Majorana pubblicò il suo lavoro scientifico più famoso, Teoria simmetrica di elettroni e positroni, in cui si introduce l’ipotesi rivoluzionaria che il partner di antimateria di alcuni tipi di particelle siano loro stesse. Questo era in contraddizione con ciò che Dirac aveva proposto. Majorana suggerì che il neutrino, da poco introdotto da Pauli e Fermi per spiegare le caratteristiche del decadimento con elettroni di alcune sorgenti radioattive, fosse un esempio di particella capace di essere l’antiparticella di se stessa.

    g.
    Questa immagine, ottenuta nel 1958 nella camera a bolle di Berkeley, dimostra l’esistenza dell’antineutrone, l’antiparticella del neutrone. Nel punto segnato dalla freccia nera un antiprotone prodotto dall’acceleratore subisce una reazione di scambio della carica. L’antineutrone prodotto non lascia una traccia visibile, percorre una decina di centimetri prima di annichilare in una caratteristica stella di annichilazione. L’energia rilasciata è consistente con quella che ci si aspetta quando le massa a riposo di un neutrone e di un antineutrone vengono convertite in energia.
    h.
    L’esperimento Cuore presso i Laboratori del Gran Sasso dell’Infn, di cui qui vediamo una colonna, è un rivelatore modulare costituito da 1.000 cristalli di ossido di tellurio disposti in una matrice quadrata di 25 colonne, ciascuna delle quali contiene 40 cristalli di TeO2 di 5x5x5 cm3. Questi, a una temperatura di ca. 7-10 mK, molto vicino allo zero assoluto, fungono sia da rivelatore che da sorgente di 130Te. L’esperimento permetterà di studiare con grande sensibilità il decadimento raro, con due elettroni senza neutrino, del 130Te. La misura delle caratteristiche di questo decadimento senza neutrini indicherà se il neutrino è una particella di Majorana e aiuterà a spiegare l’asimmetria particella-antiparticella nell’Universo. L’osservazione di questo decadimento avrà sulla fisica, sull’astrofisica e sulla cosmologia un impatto molto profondo.

    I neutrini non hanno carica, non necessariamente si comportano come i quark e gli elettroni e le altre particelle di Dirac. L’assenza di carica permette l’ipotesi che il neutrino e l’antineutrino siano la stessa particella. Ettore Majorana propose questa idea e una particella che coincide con la sua antiparticella viene chiamata particella di Majorana.
    La scoperta della massa del neutrino ha messo questo tema in primo piano. Per ordinare il neutrino all’interno del modello teorico chiamato Modello Standard è necessario sapere se i neutrini sono particelle di Dirac o particelle di Majorana. Oggi, moderni e raffinati esperimenti sono tesi a chiarire questo particolare aspetto dei neutrini.
    Dai primi lavori di Dirac sono trascorsi ottanta anni, l’idea dell’antimateria è ancora sorprendente e affascinante perchè l’Universo appare composto completamente di materia. L’antimateria sembra andar contro tutto ciò che sappiamo a proposito dell’Universo. L’Universo è completamente composto di materia anche se nel Big Bang sono state create quantità uguali di materia e antimateria. Perché?
    Tutte le particelle di materia e antimateria dovrebbero essere annichilite lasciando solo fotoni, ma in qualche modo una piccolissima frazione della materia ha potuto sopravvivere per creare l’Universo come lo conosciamo.
    È uno dei più grandi misteri della fisica moderna.

    Biografia
    Andrea Vacchi dirige la sezione di Trieste dell’Infn. È tra gli iniziatori dell’esperimento Infn Pamela per la ricerca di antimateria nei raggi cosmici. È direttore editoriale di Asimmetrie.


    Link

    http://nobelprize.org/nobel_prizes/physics/laureates/1933/dirac-bio.html
    http://www.upscale.utoronto.ca/GeneralInterest/Harrison/AntiMatter/AntiMatter.html

     

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  • Leggere tra le righe

    Leggere tra le righe
    La rincorsa tra teorie ed esperimenti

    di Ettore Remiddi

    a.
    Le righe spettrali emesse nel visibile dall’atomo di idrogeno. Le prime quattro da destra furono osservate inizialmente da Ångström. I valori osservati vengono riprodotti dalla formula di Rydberg-Balmer (in basso a destra nella figura) fissando Ry=10.9721 cm-1 e n=2, per m=3,4,5,6.
    La dialettica tra teoria ed esperimento è alla base del progresso in fisica. Concretamente, essa si sviluppa attraverso la proposizione di modelli sempre più precisi che devono essere confrontati con misure sperimentali con incertezze via via decrescenti, che a loro volta mettono in crisi i modelli esistenti e spingono alla ricerca di ulteriori proposte teoriche. La storia dello studio dell’atomo di idrogeno, e della sua spettroscopia, è esemplare per raccontare questa dialettica, e copre più di cento anni di storia. Praticamente qualunque sostanza, se gettata nel fuoco, emette colori caratteristici della sostanza stessa. Un modo di stimolare l’emissione di luce da una sostanza gassosa è farla attraversare da una scintilla elettrica. Usando questo metodo, lo svedese Anders Jonas Ångström misurò nel 1852 lo spettro di emissione dell’idrogeno con grande precisione, trovando quattro colori con lunghezze d’onda uguali a 6562,852, 4861,33, 4340,47 e 4101,74 centomilionesimi di centimetro. La “strana” unità di misura da lui usata divenne rapidamente di uso standard in fisica atomica, ed è infatti ora indicata col simbolo Å e chiamata Ångström in suo onore. Lo svizzero Johann Jakob Balmer, insegnante di matematica di liceo con la passione di trovare un ordine nascosto in insiemi di numeri apparentemente non correlati, trovò che i quattro valori per le lunghezze d’onda misurate da Ångström si potevano ottenere da una semplice formula (essenzialmente la formula riportata in fig. a, ma con n=2) che dipende da un numero intero, m, e da una costante caratteristica, che ha il valore di 10.9721 cm-1. Assegnando a m i valori 3,4,5,6, si ottengono i valori 6562,08, 4860,8, 4340,0 e 4101,3 – in stupefacente accordo con quelli misurati da Ångström! Cinque anni dopo, lo spettroscopista Johannes Rydberg (svedese come Ångström), studiando l’atomo di sodio, avendo trovato una formula simile anche per quell’atomo riscrisse la formula di Balmer (vd. fig. a) nella forma attuale, che dipende, oltre che dal numero m, da un altro numero intero, n. La formula prevede che le lunghezze d’onda si possono ottenere scegliendo i valori n = 1,2,3,… e corrispondentemente m = n+1,n+2,... La formula di Balmer corrisponde al caso particolare in cui si fissa n = 2. Si scoprì così ben presto che praticamente tutte le lunghezze d’onda ottenute da ogni possibile scelta per la coppia di numeri interi n e m sono effettivamente presenti anche nello spettro dell’idrogeno!
     
    b.
    Il fisico inglese Ernest Rutherford, scopritore della struttura atomica.

     
    Nel 1911 Ernest Rutherford, basandosi sui suoi esperimenti con i raggi alfa, propose un modello di atomo costituito da un nucleo centrale di carica elettrica positiva, in cui è concentrata quasi tutta la massa dell’atomo, e da un opportuno numero di elettroni, di massa molto più piccola, le cui cariche negative compensano esattamente la carica positiva del nucleo. Secondo questo modello doveva esserci una interazione attrattiva tra il nucleo e gli elettroni (che hanno cariche opposte), matematicamente uguale alla attrazione gravitazionale che c’è tra il Sole e i pianeti del sistema solare. Questa attrazione avrebbe potuto spiegare la struttura interna dell’atomo, le ipotetiche traiettorie degli elettroni attorno al nucleo, e infine l’emissione di radiazione elettromagnetica da parte degli atomi. Era ovviamente naturale partire dall’atomo di idrogeno, che si sapeva avere un solo elettrone, ed era quindi l’atomo più semplice da studiare. Si poteva spiegare in questo modo anche la formula di Balmer? La traiettoria più semplice per un elettrone attorno al nucleo dell’atomo di idrogeno è quella circolare. Inoltre, un elettrone in orbita dovrebbe emettere radiazione elettromagnetica con una frequenza (uguale all’inverso del periodo di rotazione) totalmente determinata dal raggio dell’orbita. Dato che la fisica classica permette al raggio dell’orbita di assumere un qualunque valore, ci si aspetterebbe che un atomo possa emettere radiazione di qualunque frequenza e lunghezza d’onda. Ma questo contrastava con quanto visto fino ad allora, e cioè che i valori osservati delle lunghezze d’onda sono solo quelli misteriosamente previsti dalla formula di Balmer. Una difficoltà collegata a questa, e dalle implicazioni ancora più catastrofiche, è che l’elettrone, irraggiando, perde energia e dovrebbe in brevissimo tempo (di molto inferiore al milionesimo di secondo) precipitare sul nucleo! Nel 1913 il giovane Niels Bohr si rese conto che la fisica classica non poteva superare queste difficoltà, e che doveva essere modificata con l’aggiunta di nuovi postulati, essenziali per spiegare i fenomeni atomici. Bohr propose quindi che il prodotto del raggio dell’orbita dell’elettrone e del suo impulso fossero uguali a un multiplo intero di una costante, indicata con ℏ (“accatagliato”), introdotta nel 1900 da Max Planck per spiegare la cosiddetta radiazione di corpo nero (vd. in Asimmetrie n. 20 Oltre i limiti, ndr). Da questa regola di “quantizzazione” deriva così che l’energia corrispondente alle orbite permesse viene a dipendere dal valore di un numero intero, n, e di una costante che dipende dai valori delle quantità fisiche rilevanti, e cioè la massa dell’elettrone, la sua carica elettrica e la costante ℏ.
     
    c.
    Il modello atomico di Bohr. Le orbite permesse sono indicate da un numero intero n. A ogni transizione tra due orbite, corrisponde una determinata lunghezza d’onda, predetta dalla formula di Balmer-Rydberg. La serie di Balmer, le cui righe sono nelle lunghezze d’onda del visibile, corrisponde alle transizioni tra l’orbita con n=2 e le orbite contrassegnate da m=3,4,… La serie di Lyman è data dalle transizioni tra n=1 e m=2,3,…, e la serie di Paschen da quelle tra n=3 e m=4,5,…
     
     
    Alla riga n = 1 corrisponde l’orbita di energia (e raggio) minima; il raggio corrispondente, indicato con il simbolo a0, è chiamato “raggio di Bohr”. Il suo valore è a0 = 0,53 Å. Nel modello atomico di Bohr, l’elettrone non può scendere su orbite di raggio (e quindi di energia) inferiori a questo valore. Bohr propose inoltre che l’elettrone potesse passare da un’orbita individuata dal numero intero m a un’altra a energia più bassa, e quindi corrispondente a un numero intero n più piccolo, emettendo un fotone di energia pari alla differenza tra le energie delle due orbite. Legando l’energia del fotone alla sua lunghezza d’onda, si ottiene quindi che questa dipende da due numeri interi, m ed n, proprio come previsto dalla formula di Balmer-Rydberg. Inoltre, la costante che appariva in questa formula può essere ora calcolata a partire dalle quantità fisiche in gioco, trovando il valore 109737,315685 cm-1, in ottimo accordo con il valore empirico ottenuto confrontando la formula di Balmer-Rydberg con i dati sperimentali! Arnold Sommerfeld, uno dei grandi fisici teorici dei primi decenni del ’900, perfezionò il modello di Bohr. Grazie alla sua completa padronanza della meccanica analitica, riformulò in maniera matematicamente meglio definita la condizione di quantizzazione, il che gli permise di studiarne le conseguenze anche per generiche orbite ellittiche, oltre che per le orbite circolari. Trovò così che, in analogia al caso dell’attrazione newtoniana, in cui si possono avere orbite di eccentricità diversa ma energia uguale, si potevano avere orbite atomiche di eccentricità diversa ma con la stessa energia. Inoltre Sommerfeld considerò anche gli effetti previsti dalla relatività speciale per le orbite degli elettroni. Si accorse così che questi, anche se tutto sommato abbastanza piccoli dato che la velocità dell’elettrone è circa un centesimo di quella della luce, potevano dare contributi leggermente diversi alle energie di orbitali di diversa eccentricità. Questa piccola differenza, chiamata “struttura fine”, risultò proporzionale al quadrato di una costante, che Sommerfeld chiamò α, data da e2/ ℏc, ovvero dal quadrato della carica dell’elettrone diviso per il prodotto tra ℏ e la velocità della luce c.
     

    d.
    Arnold Sommerfeld (a sinistra) e Niels Bohr a Lund, in Svezia.

     
    Sperimentalmente, il suo valore numerico, quando Sommerfeld la introdusse, era all’incirca 1/137. Per molto tempo si pensò (o si sperò?) che quello fosse il suo valore esatto, che si cercò di riottenere con fantasiosi e strampalati argomenti numerologici, a posteriori rivelatisi senza fondamento. Il valore corrente è 1/α = 137,035999..., con un errore inferiore a una parte per miliardo - ma il numero 137 mantiene ancora il suo fascino nell’ambiente dei fisici, specie se teorici. La struttura fine prevista da Sommerfeld nel 1916 fu subito cercata – e trovata - dagli spettroscopisti Ralph H. Fowler e Friedrich Paschen, confermando qualitativamente e quantitativamente la predizione di Sommerfeld: un altro grande successo teorico! Ma la descrizione completamente soddisfacente dell’atomo di idrogeno arrivò solo circa un decennio dopo, nel 1926, quando Erwin Schrödinger pubblicò la sua famosa equazione, tuttora alla base dell’attuale insegnamento della meccanica quantistica, e nel 1928 con l’equazione di Dirac (vd. in Asimmetrie n. 19 Un mare di antimateria, ndr), in cui viene tenuto conto anche di tutti gli effetti della relatività speciale. Mentre l’equazione di Schrödinger riproduce facilmente la formula di Balmer-Rydberg, per ottenere la struttura fine di Sommerfeld è necessario considerare l’equazione di Dirac. Confrontando l’equazione relativistica di Dirac con quella non relativistica di Schrödinger, si trovano vari termini in più. Uno di questi corrisponde alla correzione relativistica già considerata da Sommerfeld, ma ce n’è un altro, importantissimo, dovuto allo spin dell’elettrone. L’insieme di queste correzioni consente di riottenere sia la formula di Balmer che la struttura fine di Sommerfeld! Ma allora, viene da chiedersi, come aveva potuto Sommerfeld ottenere la (corretta) struttura fine senza tener conto dello spin? La risposta è interessante: Sommerfeld commise due “errori” che si compensarono tra di loro. Il primo è l’uso delle regole di quantizzazione di Bohr, che si rivelarono poi non del tutto corrette. Il secondo è il non aver tenuto conto dello spin. Ma se le regole di quantizzazione di Bohr non sono corrette, come si spiega il loro successo nell’ottenere la formula di Balmer? Probabilmente questo, invece, è solo un caso! La rincorsa tra l’accuratezza delle previsioni teoriche e la precisione delle misure sperimentali riprenderà alla fine degli anni quaranta del secolo scorso con le cosiddette “correzioni radiative” (vd. in Asimmetrie n. 19 Un mare di antimateria, ndr) portando alla formulazione dell’elettrodinamica quantistica, o QED (Quantum Electro Dynamics), che fornisce il paradigma delle teorie di campo quantistiche, su cui si basa il modello standard delle particelle elementari.
     

    Biografia
    Ettore Remiddi è stato allievo della Scuola Normale di Pisa. Si è laureato in Fisica nel 1963 ed è stato professore di Fisica Teorica a Bologna. Ha svolto la sua attività prevalentemente nel calcolo di correzioni radiative in QED e teoria delle particelle elementari.

     


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    DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.22.8
     

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