Leggere tra le righe
La rincorsa tra teorie ed esperimenti
di Ettore Remiddi
a.
Le righe spettrali emesse nel visibile dall’atomo di idrogeno. Le prime quattro da destra furono osservate inizialmente da Ångström. I valori osservati vengono riprodotti dalla formula di Rydberg-Balmer (in basso a destra nella figura) fissando Ry=10.9721 cm-1 e n=2, per m=3,4,5,6.
La dialettica tra teoria ed esperimento è alla base del progresso in fisica. Concretamente, essa si sviluppa attraverso la proposizione di modelli sempre più precisi che devono essere confrontati con misure sperimentali con incertezze via via decrescenti, che a loro volta mettono in crisi i modelli esistenti e spingono alla ricerca di ulteriori proposte teoriche. La storia dello studio dell’atomo di idrogeno, e della sua spettroscopia, è esemplare per raccontare questa dialettica, e copre più di cento anni di storia. Praticamente qualunque sostanza, se gettata nel fuoco, emette colori caratteristici della sostanza stessa. Un modo di stimolare l’emissione di luce da una sostanza gassosa è farla attraversare da una scintilla elettrica. Usando questo metodo, lo svedese Anders Jonas Ångström misurò nel 1852 lo spettro di emissione dell’idrogeno con grande precisione, trovando quattro colori con lunghezze d’onda uguali a 6562,852, 4861,33, 4340,47 e 4101,74 centomilionesimi di centimetro. La “strana” unità di misura da lui usata divenne rapidamente di uso standard in fisica atomica, ed è infatti ora indicata col simbolo Å e chiamata Ångström in suo onore. Lo svizzero Johann Jakob Balmer, insegnante di matematica di liceo con la passione di trovare un ordine nascosto in insiemi di numeri apparentemente non correlati, trovò che i quattro valori per le lunghezze d’onda misurate da Ångström si potevano ottenere da una semplice formula (essenzialmente la formula riportata in fig. a, ma con n=2) che dipende da un numero intero, m, e da una costante caratteristica, che ha il valore di 10.9721 cm
-1. Assegnando a m i valori 3,4,5,6, si ottengono i valori 6562,08, 4860,8, 4340,0 e 4101,3 – in stupefacente accordo con quelli misurati da Ångström! Cinque anni dopo, lo spettroscopista Johannes Rydberg (svedese come Ångström), studiando l’atomo di sodio, avendo trovato una formula simile anche per quell’atomo riscrisse la formula di Balmer (vd. fig. a) nella forma attuale, che dipende, oltre che dal numero m, da un altro numero intero, n. La formula prevede che le lunghezze d’onda si possono ottenere scegliendo i valori n = 1,2,3,… e corrispondentemente m = n+1,n+2,... La formula di Balmer corrisponde al caso particolare in cui si fissa n = 2. Si scoprì così ben presto che praticamente tutte le lunghezze d’onda ottenute da ogni possibile scelta per la coppia di numeri interi n e m sono effettivamente presenti anche nello spettro dell’idrogeno!
b.
Il fisico inglese Ernest Rutherford, scopritore della struttura atomica.
Nel 1911 Ernest Rutherford, basandosi sui suoi esperimenti con i raggi alfa, propose un modello di atomo costituito da un nucleo centrale di carica elettrica positiva, in cui è concentrata quasi tutta la massa dell’atomo, e da un opportuno numero di elettroni, di massa molto più piccola, le cui cariche negative compensano esattamente la carica positiva del nucleo. Secondo questo modello doveva esserci una interazione attrattiva tra il nucleo e gli elettroni (che hanno cariche opposte), matematicamente uguale alla attrazione gravitazionale che c’è tra il Sole e i pianeti del sistema solare. Questa attrazione avrebbe potuto spiegare la struttura interna dell’atomo, le ipotetiche traiettorie degli elettroni attorno al nucleo, e infine l’emissione di radiazione elettromagnetica da parte degli atomi. Era ovviamente naturale partire dall’atomo di idrogeno, che si sapeva avere un solo elettrone, ed era quindi l’atomo più semplice da studiare. Si poteva spiegare in questo modo anche la formula di Balmer? La traiettoria più semplice per un elettrone attorno al nucleo dell’atomo di idrogeno è quella circolare. Inoltre, un elettrone in orbita dovrebbe emettere radiazione elettromagnetica con una frequenza (uguale all’inverso del periodo di rotazione) totalmente determinata dal raggio dell’orbita. Dato che la fisica classica permette al raggio dell’orbita di assumere un qualunque valore, ci si aspetterebbe che un atomo possa emettere radiazione di qualunque frequenza e lunghezza d’onda. Ma questo contrastava con quanto visto fino ad allora, e cioè che i valori osservati delle lunghezze d’onda sono solo quelli misteriosamente previsti dalla formula di Balmer. Una difficoltà collegata a questa, e dalle implicazioni ancora più catastrofiche, è che l’elettrone, irraggiando, perde energia e dovrebbe in brevissimo tempo (di molto inferiore al milionesimo di secondo) precipitare sul nucleo! Nel 1913 il giovane Niels Bohr si rese conto che la fisica classica non poteva superare queste difficoltà, e che doveva essere modificata con l’aggiunta di nuovi postulati, essenziali per spiegare i fenomeni atomici. Bohr propose quindi che il prodotto del raggio dell’orbita dell’elettrone e del suo impulso fossero uguali a un multiplo intero di una costante, indicata con ℏ (“accatagliato”), introdotta nel 1900 da Max Planck per spiegare la cosiddetta radiazione di corpo nero (vd. in Asimmetrie n. 20
Oltre i limiti, ndr). Da questa regola di “quantizzazione” deriva così che l’energia corrispondente alle orbite permesse viene a dipendere dal valore di un numero intero, n, e di una costante che dipende dai valori delle quantità fisiche rilevanti, e cioè la massa dell’elettrone, la sua carica elettrica e la costante ℏ.
c.
Il modello atomico di Bohr. Le orbite permesse sono indicate da un numero intero n. A ogni transizione tra due orbite, corrisponde una determinata lunghezza d’onda, predetta dalla formula di Balmer-Rydberg. La serie di Balmer, le cui righe sono nelle lunghezze d’onda del visibile, corrisponde alle transizioni tra l’orbita con n=2 e le orbite contrassegnate da m=3,4,… La serie di Lyman è data dalle transizioni tra n=1 e m=2,3,…, e la serie di Paschen da quelle tra n=3 e m=4,5,…
Alla riga n = 1 corrisponde l’orbita di energia (e raggio) minima; il raggio corrispondente, indicato con il simbolo a0, è chiamato “raggio di Bohr”. Il suo valore è a0 = 0,53 Å. Nel modello atomico di Bohr, l’elettrone non può scendere su orbite di raggio (e quindi di energia) inferiori a questo valore. Bohr propose inoltre che l’elettrone potesse passare da un’orbita individuata dal numero intero m a un’altra a energia più bassa, e quindi corrispondente a un numero intero n più piccolo, emettendo un fotone di energia pari alla differenza tra le energie delle due orbite. Legando l’energia del fotone alla sua lunghezza d’onda, si ottiene quindi che questa dipende da due numeri interi, m ed n, proprio come previsto dalla formula di Balmer-Rydberg. Inoltre, la costante che appariva in questa formula può essere ora calcolata a partire dalle quantità fisiche in gioco, trovando il valore 109737,315685 cm-1, in ottimo accordo con il valore empirico ottenuto confrontando la formula di Balmer-Rydberg con i dati sperimentali! Arnold Sommerfeld, uno dei grandi fisici teorici dei primi decenni del ’900, perfezionò il modello di Bohr. Grazie alla sua completa padronanza della meccanica analitica, riformulò in maniera matematicamente meglio definita la condizione di quantizzazione, il che gli permise di studiarne le conseguenze anche per generiche orbite ellittiche, oltre che per le orbite circolari. Trovò così che, in analogia al caso dell’attrazione newtoniana, in cui si possono avere orbite di eccentricità diversa ma energia uguale, si potevano avere orbite atomiche di eccentricità diversa ma con la stessa energia. Inoltre Sommerfeld considerò anche gli effetti previsti dalla relatività speciale per le orbite degli elettroni. Si accorse così che questi, anche se tutto sommato abbastanza piccoli dato che la velocità dell’elettrone è circa un centesimo di quella della luce, potevano dare contributi leggermente diversi alle energie di orbitali di diversa eccentricità. Questa piccola differenza, chiamata “struttura fine”, risultò proporzionale al quadrato di una costante, che Sommerfeld chiamò α, data da e2/ ℏc, ovvero dal quadrato della carica dell’elettrone diviso per il prodotto tra ℏ e la velocità della luce c.
d.
Arnold Sommerfeld (a sinistra) e Niels Bohr a Lund, in Svezia.
Sperimentalmente, il suo valore numerico, quando Sommerfeld la introdusse, era all’incirca 1/137. Per molto tempo si pensò (o si sperò?) che quello fosse il suo valore esatto, che si cercò di riottenere con fantasiosi e strampalati argomenti numerologici, a posteriori rivelatisi senza fondamento. Il valore corrente è 1/α = 137,035999..., con un errore inferiore a una parte per miliardo - ma il numero 137 mantiene ancora il suo fascino nell’ambiente dei fisici, specie se teorici. La struttura fine prevista da Sommerfeld nel 1916 fu subito cercata – e trovata - dagli spettroscopisti Ralph H. Fowler e Friedrich Paschen, confermando qualitativamente e quantitativamente la predizione di Sommerfeld: un altro grande successo teorico! Ma la descrizione completamente soddisfacente dell’atomo di idrogeno arrivò solo circa un decennio dopo, nel 1926, quando Erwin Schrödinger pubblicò la sua famosa equazione, tuttora alla base dell’attuale insegnamento della meccanica quantistica, e nel 1928 con l’equazione di Dirac (vd. in Asimmetrie n. 19
Un mare di antimateria, ndr), in cui viene tenuto conto anche di tutti gli effetti della relatività speciale. Mentre l’equazione di Schrödinger riproduce facilmente la formula di Balmer-Rydberg, per ottenere la struttura fine di Sommerfeld è necessario considerare l’equazione di Dirac. Confrontando l’equazione relativistica di Dirac con quella non relativistica di Schrödinger, si trovano vari termini in più. Uno di questi corrisponde alla correzione relativistica già considerata da Sommerfeld, ma ce n’è un altro, importantissimo, dovuto allo spin dell’elettrone. L’insieme di queste correzioni consente di riottenere sia la formula di Balmer che la struttura fine di Sommerfeld! Ma allora, viene da chiedersi, come aveva potuto Sommerfeld ottenere la (corretta) struttura fine senza tener conto dello spin? La risposta è interessante: Sommerfeld commise due “errori” che si compensarono tra di loro. Il primo è l’uso delle regole di quantizzazione di Bohr, che si rivelarono poi non del tutto corrette. Il secondo è il non aver tenuto conto dello spin. Ma se le regole di quantizzazione di Bohr non sono corrette, come si spiega il loro successo nell’ottenere la formula di Balmer? Probabilmente questo, invece, è solo un caso! La rincorsa tra l’accuratezza delle previsioni teoriche e la precisione delle misure sperimentali riprenderà alla fine degli anni quaranta del secolo scorso con le cosiddette “correzioni radiative” (vd. in Asimmetrie n. 19
Un mare di antimateria, ndr) portando alla formulazione dell’elettrodinamica quantistica, o QED (Quantum Electro Dynamics), che fornisce il paradigma delle teorie di campo quantistiche, su cui si basa il modello standard delle particelle elementari.
Biografia
Ettore Remiddi è stato allievo della Scuola Normale di Pisa. Si è laureato in Fisica nel 1963 ed è stato professore di Fisica Teorica a Bologna. Ha svolto la sua attività prevalentemente nel calcolo di correzioni radiative in QED e teoria delle particelle elementari.
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DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.22.8
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