I contributi della fisica italiana alle ricerche sul bosone W

MODELLO STANDARD PARTICELLE ELEMENTARI INFNI risultati, pubblicati su Science l’8 aprile 2022 dalla Collaborazione dell’esperimento Collider Detector at Fermilab (CDF) all’acceleratore Tevatron del Fermilab negli Stati Uniti, rappresentano la più accurata misura mai realizzata della massa del bosone W, nonché l’ultimo di una lunga serie di contributi che, nel corso di un secolo, hanno consentito di comporre questo tassello del Modello Standard delle particelle elementari.

Il bosone W è uno degli elementi centrali del Modello Standard: è portatore della forza elettrodebole - insieme al suo partner neutro, il bosone Z - e ha dunque un ruolo chiave nella comprensione del meccanismo del decadimento beta, il processo responsabile di tutte le trasformazioni nucleari, comprese quelle che consentono al Sole di brillare.

La lunga storia della comprensione di questo fenomeno conta fondamentali contributi teorici e sperimentali, come l’unificazione delle interazioni elettromagnetiche e deboli a opera di Abdus Salam, Sheldon Glashow and Steven Weinberg nel 1967-68, e molti sono anche quelli dovuti alla fisica italiana. Dopo l’inaspettata scoperta della radioattività naturale da parte di Henri Becquerel alla fine del 1800, e le successive esperienze condotte dai coniugi Curie, allo studio della radiazione beta ha contribuito Enrico Fermi che, agli inizi del 1930, a seguito delle attività sperimentali condotte nell’Istituto di via Panisperna, elaborò una prima teoria per la descrizione del fenomeno. Per quanto incompleto, il modello proposto da Fermi, che prevedeva l’esistenza di un meccanismo di interazione diretta tra particelle coinvolte nel decadimento beta, rimase a lungo l’ipotesi di riferimento, fino a quando fu generalizzato al fine di includere interazioni aggiuntive per poter spiegare i dati sperimentali di decadimenti di nucleoni e leptoni, ed in particolare il risultato del famoso esperimento di Chien-Shiung Wu del 1956, che mostrava come le interazioni deboli violassero la simmetria rispetto alla variazione delle coordinate delle particelle coinvolte nei decadimenti beta.

Questo comportamento spinse i fisici a recuperare le idee di un altro pioniere del Modello Standard, Hideki Yukawa, che nel 1935 aveva pubblicato la sua teoria del mesone, secondo cui le interazioni nucleari altro non sarebbero state se non la manifestazione di mediatori in grado di scambiare quanti di energia. Ipotesi su cui lavorò anche Bruno Pontecorvo, fornendo intuizioni decisive sul tipo di caratteristiche che avrebbe dovuto possedere una tale particella.

La fisica italiana è stata protagonista non solo degli studi teorici ma anche di quelli sperimentali, come i due successi ottenuti dagli esperimenti Gargamelle, UA1 e UA2 del CERN tra gli anni ’70 e ‘80, che hanno fornito la prova conclusiva dell’esistenza dei bosoni portatori della forza elettrodebole. In particolare, nel 1973, anche grazie al contributo fornito dall’INFN, Gargamelle, costituito da una gigantesca camera a bolle per lo studio dei neutrini, scopre le correnti deboli neutre, confermando l’ipotesi sull’unificazione della teoria delle interazioni deboli con quella delle interazioni elettromagnetiche elaborata a partire dalle ipotesi di Yukawa di particelle mediatrici di forze. 

Dieci anni più tardi, nel 1983, gli esperimenti UA1 e UA2, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, osserveranno per la prima volta i bosoni W e Z. Nel 1984 la loro scoperta varrà a Carlo Rubbia, all’epoca alla guida dell’esperimento UA1, il premio Nobel per la fisica, condiviso con Simon van der Meer. Questo riconoscimento tiene conto anche del determinante ruolo svolto da Rubbia e van der Meer nel promuovere la conversione del Super Proton Synchrotron, il principale acceleratore del CERN fino al 1990, in un collisore protone-antiprotone, scelta tecnologica rivelatasi fondamentale ai fini della scoperta.

Oggi, il nuovo risultato sulla massa del bosone W pubblicato da CDF, esperimento nato originariamente come una collaborazione statunitense-italo-giapponese, segna un’altra importante tappa di questa lunga storia, ma non la sua conclusione. Il valore individuato da CDF, infatti, è in tensione sia con precedenti misure, effettuate dallo stesso rivelatore e da altri esperimenti, sia con le predizioni teoriche. Una tensione che potrebbe avere implicazioni di ampia portata sulla nostra comprensione dei costituenti della materia, perché la massa del bosone W è legata a due altri parametri chiave del Modello Standard, la massa del Bosone di Higgs e la massa del quark top. La comunità dei fisici, con l’INFN in prima fila, dovrà ora cercare nuove verifiche della misura con esperimenti diversi, come quelli al Large Hadron Collider del CERN, che sta per iniziare il terzo periodo di presa dati, ma anche, perché no, una nuova teoria, una estensione del Modello Standard, capace di spigare questo nuovo risultato.

La comunità INFN di CDF

L’INFN è uno dei soci fondatori della collaborazione CDF e dal 1979, anno a cui risalgono le prime discussioni sulla trasformazione del protosincrotrone Tevatron del Fermilab in un collisore fra fasci di protoni e di antiprotoni, non ha mai fatto mancare il determinante supporto all’esperimento sotto tutti gli aspetti. L’INFN ha avuto un ruolo leader nel progetto e nella realizzazione di gran parte del rivelatore. Nello specifico, sono state di responsabilità dell’INFN tutte le attività rivolte alla realizzazione degli spettrometri a piccoli angoli, del calorimetro adronico, del silicon vertex detector, della relativa elettronica di trigger sui vertici secondari, del tracciatore ad angoli intermedi, dei rivelatori di muoni. La comunità italiana di CDF ha inoltre collaborato con ruoli di primaria importanza anche alla realizzazione di molte altre fondamentali componenti del hardware, quali la camera centrale e l’elettronica di trigger e di acquisizione dati dell’esperimento. 

Proprio in virtù del suo ruolo all’interno della collaborazione CDF, l’INFN, attraverso gruppi appartenenti ai Laboratori Nazionali di Frascati e alle Sezioni di Pisa, Roma, Padova, Bologna e Trieste-Udine, è stata quindi protagonista dei maggiori successi ottenuti dall’esperimento in quasi 30 anni di attività. In primo luogo, la scoperta del quark top nel 1995 e la misura della sua massa e delle sue proprietà di produzione e decadimento. In secondo luogo, l’individuazione di vari barioni contenenti i quark charm e bottom. Da ultimo, ma non per importanza, la misura della massa del bosone W pubblicata ora su Science, che ha fissato un valore per questo parametro pari 80.433,5 GeV, con un errore statistico e sistematico davvero ridotti rispetto alle precedenti misure.

L’importante partecipazione dei fisici italiani a CDF è testimoniata anche dai numeri relativi alla composizione della collaborazione scientifica: nel 2011, anno di chiusura dell’esperimento, su 553 ricercatori, i non statunitensi erano circa il 50%, di cui 63 italiani. Inoltre, 127 sono stati gli autori italiani degli articoli prodotti dalla collaborazione, mentre nella pubblicazione del 1995 che annunciò la scoperta del quark top figuravano 8 fisici della Sezione INFN di Bologna, 5 dei Laboratori Nazionali di Frascati, 11 della Sezione INFN di Padova e 36 della Sezione INFN di Pisa. Provenienti dall’INFN anche i 5 ricercatori non statunitensi che si sono alternati alla guida dell’esperimento. [Matteo Massicci]

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