Il 4 luglio del 2012, una raggiante Fabiola Gianotti, all’epoca portavoce di ATLAS, uno dei grandi esperimenti ospitati al CERN, annunciava al mondo la scoperta del bosone di Higgs. Oltre a fornire la prova dell’esistenza di uno dei pilastri portanti dell’edificio teorico descritto dal modello standard, la teoria di riferimento nello studio dei costituenti ultimi della materia, il risultato segnava l’ennesima vittoria della fisica degli acceleratori. Nel 2008, con l’inizio delle operazioni dell’imponente Large Hadron Collider (LHC), questo campo aveva mantenuto la promessa di spingere le energie ottenute negli scontri tra particelle verso soglie mai raggiunte, aprendo così una finestra su un nuovo livello del mondo subatomico e rendendo possibile la formazione e l’individuazione del Bosone di Higgs. Non stupisce quindi che, a neanche dieci anni da quella storica giornata, mentre proseguono i lavori di aggiornamento di LHC previsti dal progetto High-Luminosity, che si prefigge di aumentare di un fattore 10 il numero di scontri tra protoni prodotti all’interno dell’acceleratore, la comunità internazionale dei fisici sia già impegnata a discutere del futuro dopo LHC e ad individuare strategie e tecnologie che garantirebbero di raggiungere le frontiere dei multi-TeV. Si tratta di raggiungere in laboratorio energie molto più elevate rispetto a quelle oggi disponibili, con cui cercare di scoprire nuove particelle e dimostrare nuove teorie che permetterebbero di comprendere i problemi rimasti aperti e non riconducibili alle previsioni del modello standard, quali l’asimmetria tra materia e antimateria visibile nell’universo e l’assenza di evidenze sulla natura della materia oscura. A tal fine, come dimostrano due recenti studi apparsi a gennaio su Nature Physics, sono diversi gli approcci su cui si stanno concentrando i ricercatori, per stabilire le potenzialità, la fattibilità e la sostenibilità di nuove tecniche e tecnologie di accelerazione. Attività a cui l’INFN, dando seguito al fondamentale contributo fornito alla progettazione e alla costruzione di LHC, partecipa con un ruolo da protagonista, confermando la propria leadership nel campo della fisica delle alte energie in Europa.
Le discussioni concernenti l’eredità di LHC non rappresentano una novità: i progetti scientifici della cosiddetta big science richiedono visione, e l’impegno di risorse e tempi su larga scala. L’idea di un collisore di adroni di dimensioni ancora maggiori, in grado di fornire condizioni sperimentali nettamente superiori a LHC, era infatti stata già considerata in risposta alle indicazioni contenute all’interno dell’aggiornamento della strategia europea per la fisica delle particelle elaborata nel 2013 a seguito della scoperta del bosone di Higgs. E, come emerso dal più recente aggiornamento della Strategia Europea dello scorso giugno, il progetto per un acceleratore di questo tipo e con un’energia nel centro di massa di almeno 100 TeV è il progetto di riferimento per disegnare il futuro di questo settore di ricerca. Ciò non toglie che al contempo la comunità scientifica abbia iniziato a sviluppare studi complementari volti a sondare la realizzabilità tecnologica e il valore scientifico di nuove tipologie di acceleratori.
Collisori di Muoni (Muon Collider)
Una delle possibilità individuate è quella che si basa su un paradigma differente rispetto a quello adottato da LHC, che prevede di affidare ai muoni il compito di sondare la materia attraverso urti reciproci e alla conseguente produzione di particelle secondarie oggetto dell’indagine fisica. La valutazione dei vantaggi associati all’utilizzo di un collisore di muoni è stata presentata all’interno di un articolo apparso lo scorso 28 gennaio su Nature Physics, che non manca in ogni caso di sottolineare le sfide tecnologiche che il progetto comporta. Uno studio preliminare che costituisce il primo atto di una nascente collaborazione internazionale, la quale si propone di individuare rischi e benefici di questa tipologia di acceleratori e di elaborare il progetto di un dimostratore entro il prossimo aggiornamento della Strategia Europea della fisica delle particelle del 2027. Un progetto a cui l’INFN ha da subito fornito un contributo strategico grazie al proprio Know-How e alle proprie risorse.
Grazie alle loro caratteristiche, i muoni, particelle elementari con una massa circa 200 volte più pesante di quella degli elettroni, si prestano a essere accelerati in un anello senza emettere radiazioni, raggiungendo le energie di frontiera richieste agli acceleratori di nuova generazione su percorsi ridotti e con un minore contributo energetico complessivo, a parità di prestazioni con tipologie differenti di collisori presi in esame da altre proposte. Una macchina in grado di sfruttare tali aspetti potrebbe dimostrarsi perciò un importante strumento di scoperta per la ricerca nell’ambito della fisica delle particelle. Sono molti, tuttavia, i problemi da superare sulla strada verso la concretizzazione di questo scenario: a partire da quelli legati alla breve durata della vita media dei muoni, che rendono necessario accelerare rapidamente ad alte energie queste particelle utilizzando campi magnetici elevati per mantenere i fasci a un’intensità tale da ottenere un numero utile di scontri. I prodotti di decadimento dei muoni (elettroni e neutrini) generano inoltre un fondo che raggiunge il rivelatore posizionato nella regione di collisione dei fasci, ostacolando lo studio dei segnali più interessanti. Per risolvere queste problematiche risulterà imprescindibile sviluppare rivelatori capaci di mitigare questi effetti e progettare sofisticati algoritmi di ricostruzione.
A dispetto delle difficoltà prospettate, la realizzazione di un collisore di muoni è un’impresa che può contare su risultati incoraggianti ottenuti da studi ed esperimenti svolti nel recente passato negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Italia. In merito al tema della schermatura dei rivelatori dal fondo prodotto dal processo di decadimento dei muoni, per esempio, la collaborazione tra gli scienziati statunitensi del Muon Accelerator Program (MAP) e dell’INFN ha dimostrato che l’utilizzo di tecnologie emergenti è in grado di fornire prestazioni eccellenti. Come spiega Donatella Lucchesi, ricercatrice INFN e coautrice dell’articolo di Nature Physics, “sfruttando le infrastrutture di calcolo dell’INFN è stato possibile sviluppare la simulazione dettagliata del rivelatore di collisore di muoni e di alcuni processi di fisica chiave, come i decadimenti del bosone di Higgs, e dimostrare che i risultati attesi sono molto promettenti”. Future collaborazioni tra Italia e Stati Uniti, da cui ci si aspetta di ottenere studi più accurati in grado di indirizzare la progettazione dei rivelatori, saranno possibili grazie ad un progetto Europeo, aMUSE, recentemente finanziato e coordinato dai Laboratori Nazionali di Frascati dell’INFN, che si propone di estendere le attività e le ricerche previste presso il Muon Campus, l’area del Fermilab che ospita l’esperimento Muon (g-2) e Mu2e, anche alle attività legate al Muon Collider.
È riconducibile al lavoro svolto dal MAP anche una delle soluzioni individuate per consentire la produzione di un fascio di muoni adatti per gli scopi della ricerca fondamentale. Il metodo consiste nel ‘raccogliere’ i muoni generati dal decadimento dei pioni emessi a seguito dell’urto di un fascio principale di protoni con un bersaglio. La principale difficoltà di questa tecnica risiede nei previsti stadi di ‘raffreddamento’ e di successiva accelerazione dei fasci di particelle, necessari a far assumere ai muoni ottenuti parametri tali da massimizzare la probabilità degli scontri e da renderli quindi pronti per l’iniezione nell’anello acceleratore. MICE, un progetto oggi concluso dedicato a dimostrare l’efficacia di questo meccanismo di raffreddamento, con sede in Inghilterra, che ha visto la partecipazione dell’INFN, ha ottenuto i primi positivi risultati in tal senso.
Un’alternativa alla soluzione proposta dagli scienziati statunitensi proviene invece dai Laboratori Nazionali di Frascati dell’INFN. Denominata LEMMA, la tecnica si basa su un diverso schema per la produzione di coppie di muoni, generati dall’annichilazione di positroni sugli elettroni di un bersaglio di materiale leggero. Tra i suoi vantaggi, la possibile formazione di fasci molto ben collimati e “freddi”, che permettono, con una minore intensità, una sostanziale riduzione del fondo generato dai decadimenti dei muoni. “La comunità italiana, grazie all’idea innovativa di LEMMA, che ha stimolato nuovamente l’interesse in Italia ed in Europa verso i collisori di muoni, ha da subito partecipato attivamente a tutti gli studi che hanno permesso di ottenere la recente raccomandazione della Strategia Europea”, commenta Nadia Pastrone, ricercatrice del Sezione INFN di Torino e responsabile nazionale del progetto Muon Collider. “Oggi siamo fortemente coinvolti nella collaborazione internazionale con un centinaio di fisici ed ingegneri di 13 Sezioni INFN impegnati sugli studi di fisica, sugli sviluppi dei rivelatori e sulla comprensione del fondo di macchina. Inoltre, facciamo parte del network MUST (MUon STrategy), all’interno di un progetto recentemente approvato dalla Comunità Europea.”
Acceleratori al plasma
Le attività legate allo sviluppo di un collisore di muoni non esauriscono l’impegno dell’INFN nel settore della fisica degli acceleratori, che è rivolto anche verso un ulteriore e promettente indirizzo di ricerca, focalizzato sull’impiego di una tecnologia di accelerazione delle particelle che sfrutta le proprietà di un plasma, un gas ionizzato ad altissima temperatura. Tra i progetti di punta dell’istituto, c’è infatti quello che fa riferimento al programma europeo Eupraxia per la realizzazione di una nuova generazione di acceleratori di particelle al plasma economici e compatti. Una proposta finanziata nell’ambito di Horizon 2020 ed elaborata da un consorzio di cui fanno parte oltre 50 istituti europei ed extraeuropei e alcuni partner industriali. L’Italia, attraverso il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR), si è appena candidata a ospitare nei Laboratori Nazionali di Frascati dell’INFN, già responsabili della sperimentazione sulla nuova tecnica di accelerazione, la futura macchina in occasione della prossima Roadmap 2021 di ESFRI (European Strategy Forum on Research Infrastructure), il forum strategico europeo che individua quali saranno le grandi infrastrutture di ricerca su cui investire a livello europeo.
La realizzazione di un acceleratore di particelle al plasma potrebbe assolvere importanti compiti sia nell’ambito dell’indagine della fisica delle particelle, che in ambiti interdisciplinari e industriali, consentendo la costruzione di sorgenti compatte di radiazione laser a raggi X (laser a elettroni liberi) utili, per esempio, nella diagnostica per immagini in vari settori industriali e di ricerca applicata, inclusa la possibilità di investigare le strutture di batteri e virus, e fornire quindi preziose informazioni per lo sviluppo di terapie e vaccini.
Per sperare di raggiungere tali obiettivi è tuttavia necessario realizzare moduli al plasma capaci di accelerare elettroni di alta qualità. In questo campo, un incoraggiante risultato è stato recentemente ottenuto dal gruppo di ricerca SPARC-Lab dei LNF, al centro dell’altro dei due articoli articoli apparsi a gennaio su Nature Physics, a seguito di un esperimento che ha verificato le capacità di un plasma, prodotto ionizzando idrogeno gassoso attraverso una scarica elettrica ad alta tensione e confinato all’interno di un piccolo tubo di plastica chiamato capillare, di accelerare degli elettroni. Grazie a un foto-iniettore, i ricercatori dell’INFN hanno generato e pre-accelerato due distinti pacchetti di elettroni temporalmente separati: un fascio pilota (driver) che ha la funzione di eccitare il campo accelerante nel plasma, e un fascio test (witness) che viene accelerato da tale campo. In questo modo, i campi acceleranti prodotti dal driver sono stati utilizzati per accelerare il witness, mantenendo elevata la qualità del fascio di elettroni
I plasmi potrebbero rappresentare una rivoluzione copernicana nel campo degli acceleratori lineari, consentendo, una volta che la tecnologia sarà matura e consolidata, di diminuire le dimensioni e i costi di questi apparati sperimentali, il cui funzionamento è oggi subordinato a un sistema legato all’utilizzo delle cosiddette cavità a radiofrequenza, dispositivi che svolgono l’essenziale compito di fornire l’impulso e l’adeguata direzione alle particelle, il vero cuore di queste macchine. Tali componenti, così come sono oggi concepiti e realizzati, sembrano infatti aver raggiunto i loro limiti strutturali e funzionali, non potendo più garantire proprietà meccaniche e prestazioni in grado di favorire e contenere energie superiori a quelle oggi ottenibili. Un indirizzo di ricerca, quello nell’ambito dei moduli al plasma, che potrebbe inoltre avvantaggiare altri approcci alla progettazione della nuova generazione di acceleratori. “Questo primo importante passo compiuto ai Laboratori Nazionali di Frascati dal nostro gruppo”, spiega Massimo Ferrario, responsabile di SPARC-Lab, “apre la strada allo sviluppo di acceleratori compatti al plasma ad alto campo accelerante in grado di essere utilizzati come gli attuali acceleratori ma con costi e dimensioni ridotte. Tra l’altro, nulla esclude in linea di principio di accelerare con i plasmi anche fasci di muoni stabilendo un’utile sinergia tra le due linee di ricerca.” [Matteo Massicci]