La gravità gravita
Come coniugare la relatività generale e la meccanica quantistica

di Luca Griguolo


a.
Richard Feynman al Cern, nel 1970.
Nel 1962 Richard Feynman partecipò alla conferenza di Varsavia sulla teoria della gravitazione e quello che presentò diede virtualmente inizio a una delle maggiori sfide (o uno dei peggiori incubi) della fisica teorica contemporanea: la gravità quantistica. Nel suo approccio pragmatico, capire il comportamento a piccole distanze della forza di gravità significava studiare i processi d’urto della particella associata al campo gravitazionale, l’elusivo quanto di spin 2 detto “gravitone”, in perfetta analogia con lo studio dei fotoni in elettrodinamica. Una strada assolutamente innovativa all’epoca, nella quale gli eleganti aspetti geometrici della relatività generale non venivano assunti ma emergevano, eventualmente, come risultato delle interazioni. Feynman capì che il problema chiave della descrizione quantistica della gravità era che “la gravità gravita”: la gravitazione è una forza universalmente attrattiva che si accoppia alla massa-energia e, poiché il campo gravitazionale stesso possiede energia, la teoria quantistica genera un numero infinito di interazioni. Mentre questi effetti possono essere trascurabili in esperimenti di laboratorio o sulla scala del sistema solare, in situazioni dove invece il campo gravitazionale è particolarmente forte (vicino a un buco nero o all’origine dell’universo) diventano dominanti e tendono a esplodere portando a risultati insensati.
La comparsa di infiniti quantistici nella teoria di Einstein non è comunque una sorpresa: nelle teorie di campo quantistiche è anzi la regola ed è legata alle infinite configurazioni di energia che possono assumere le particelle virtuali (vd. L'infinito sotto il tappeto, ndr). La presenza di questi contributi è controllata, normalmente, attraverso la procedura di rinormalizzazione: questa permette di inglobare le cosiddette divergenze ultraviolette nella definizione di un numero finito di parametri misurabili, dai quali dipende la teoria stessa. In elettrodinamica, ad esempio, una volta assunto il valore della massa dell’elettrone e della carica elettrica, è possibile procedere con i calcoli quantistici ottenendo risultati finiti. La gravità invece sfugge a questo schema, essendo una teoria non rinormalizzabile: in altre parole, come aveva intuito Feynman, l’auto-interazione fra i gravitoni genera quantisticamente un numero infinito di nuovi termini di interazione, a ognuno dei quali corrisponde un nuovo coefficiente della teoria. La conseguenza è che per fare una previsione precisa sull’urto di un gravitone con un elettrone, ad esempio, occorrerebbero infiniti esperimenti preliminari per fissare tutti i nuovi coefficienti! La teoria perderebbe così la sua predittività, cioè la capacità di fornire previsioni su tutti i possibili risultati sperimentali, una volta che siano stati calibrati un numero finito di coef ficienti.
Ma come è possibile allora che questi effetti catastrofici, che derivano dal voler mettere insieme la relatività generale e la meccanica quantistica, non si manifestino in condizioni normali, in cui queste teorie sono invece soddisfacenti e predittive? Il punto è che esiste una scala di lunghezza fondamentale, la scala di Planck, costruita a partire da tre costanti fondamentali della natura, e cioè la costante di gravitazione universale G, la velocità della luce c e la costante di Planck h (vd. in Asimmetrie n. 15 Scale di valori, ndr). La stessa teoria della rinormalizzazione ci assicura che per ogni processo su scale più grandi della lunghezza di Planck (che corrisponde a 1,6 x 10-33 cm), si possano fare calcoli predittivi affidandosi a un numero finito di misure. È soltanto quando ci avviciniamo alle piccolissime lunghezze dell’ordine della scala di Planck che le nuove interazioni diventano man mano più rilevanti e, quindi, la teoria non è più predittiva. In questo senso la gravità di Einstein può essere vista come una teoria “effettiva” (vd. in Asimmetrie n. 18 Su e giù per le scale, ndr), che descrive efficacemente le fluttuazioni quantistiche di curvatura sopra uno spazio classico fintanto che queste rimangono piccole.
 
b.
Il fisico Steven Weinberg, premio Nobel per la formulazione della teoria elettrodebole nel 1979 assieme a Sheldon Glashow e Abdus Salam, ha ipotizzato che il comportamento della gravità ad altissime energie sia quello di una teoria rinormalizzabile.

 
c.
Rappresentazione schematica di un processo d’urto tra due particelle. Secondo la teoria delle stringhe, se visto a piccole distanze, l’urto non coinvolge particelle puntiformi (a sinistra) ma stringhe (a destra), ossia oggetti che hanno una estensione spaziale non nulla. Questo modifica radicalmente il comportamento ultravioletto (cioè a piccole distanze) della teoria, eliminando gli infiniti che si generano quando le particelle puntiformi si avvicinano indefinitamente, come all’interno del cerchio verde della figura di sinistra.


 
Come già detto, i fisici vorrebbero però controllare una teoria quantistica anche in situazioni in cui il campo gravitazionale è forte: negli anni sono state formulate varie proposte e due, in particolare, risultano attraenti per sfuggire al problema della non rinormalizzabilità. La prima, che potremmo definire “conservatrice”, invoca il fenomeno della “salvezza asintotica”, ipotizzato da Steven Weinberg: in questo scenario gli infiniti coefficienti della teoria non sarebbero fra loro indipendenti, ma controllati da un numero finito di parametri che caratterizzerebbero la gravità ad altissime energie. Recenti evidenze teoriche per questa proposta sono state ottenute attraverso una tecnica nota come “gruppo di rinormalizzazione esatto”. Una seconda via di uscita, che potremmo chiamare invece “progressista”, consiste nel supporre che, alle energie in cui la teoria di Einstein diventa incontrollabile, altri gradi di libertà (altre particelle, ad oggi non rivelate) entrino in gioco, modificando il comportamento delle fluttuazioni quantistiche. Abbastanza sorprendentemente, negli anni ‘70, ci si accorse che la teoria delle stringhe, inizialmente proposta per descrivere le interazioni nucleari forti, generalizzava in maniera naturale la teoria di Einstein, producendo la comparsa proprio di questi nuovi gradi di libertà ad alte energie. La teoria delle stringhe sostituisce al concetto di particella quello di stringa, un ente unidimensionale ai cui modi di vibrazione si associano diverse particelle.
Ogni “nota” di questa corda vibrante corrisponde a un particolare stato di massa e spin. Joel Scherk e John Schwarz notarono che il gravitone poteva essere visto come un’eccitazione di massa nulla e spin 2 della stringa fondamentale, e i pericolosi infiniti associati al suo comportamento quantistico venivano regolati dalle interazioni con le altre (infinite) particelle massive dovute alle vibrazioni. La geometria stessa dello spaziotempo (il sale della relatività generale), in cui la stringa si muove, appare come un effetto di bassa energia ed è regolato, in prima approssimazione, proprio dalle equazioni di Einstein! In questa estensione della gravità si possono calcolare inoltre i processi di urto in maniera sistematica a tutte le energie (vd. fig. c, ndr). Unico problema, non da poco, che le stringhe necessitano di uno spaziotempo a dieci dimensioni (sei più di quelle ordinarie) e non ci sono ancora evidenze osservabili di tale teoria. In realtà, risolvere il problema delle divergenze ultraviolette non è ancora la fine della storia: sulla strada per la gravità quantistica esistono ostacoli ancora più fondamentali. Uno di questi è la comprensione del “paradosso dell’informazione”, direttamente collegato alla scoperta di Stephen Hawking che i buchi neri evaporano a livello quantistico (vd. in Asimmetrie n. 19 La misura del disordine, ndr). Questo fenomeno implica la perdita di “unitarietà” nella teoria quantistica: in parole semplici la probabilità totale dei processi non si conserverebbe e le proprietà distintive portate dalle particelle elementari verrebbero perdute. Ad esempio, in un processo d’urto, ci sarebbe la possibilità che niente avvenga e che le particelle semplicemente “scompaiano” nel nulla (cosa non molto soddisfacente per un fisico). Questo tipo di problema è indipendente dal tipo di gravità quantistica considerato ed emerge ogni volta che un processo è in grado di generare un buco nero: un problema quindi anche a grandi distanze, come hanno fatto vedere Daniele Amati, Marcello Ciafaloni e Gabriele Veneziano in una serie di lavori degli anni ‘90.
Il cammino verso la gravità quantistica è quindi ancora lungo e altre proposte, oltre alle stringhe, sono state fatte per superare questi ostacoli: olografia, gravità quantistica a loop (vd. in Asimmetrie n. 17 Time out, ndr), geometria non commutativa, solo per citarne alcune, ma nessuna ha dato risposte conclusive. La natura sembra veramente gelosa di uno dei suoi segreti più profondi.
 

Biografia
Luca Griguolo ha conseguito il PhD in teoria delle particelle elementari alla Sissa di Trieste ed è stato post-doc al Massachusetts Institute of Technology (Mit). Ricercatore universitario al Dipartimento di Fisica dell’Università di Parma, è attualmente professore associato di fisica teorica nello stesso dipartimento. Si occupa principalmente di aspetti non-perturbativi in teoria quantistica dei campi e di problematiche legate alla teoria delle stringhe. È uno degli organizzatori e docenti della Scuola di Dottorato Laces, che si svolge dal 2008 al Galileo Galilei Institute for Theoretical Physics di Firenze.


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