[as] radici
Dilatazione dei tempi alla prova.

di Giulio Peruzzi
storico della fisica


a.
Frontespizio della prima edizione de Il Saggiatore di Galileo Galilei, opera considerata il “manifesto” del metodo della scienza moderna.

A Galileo si deve la prima chiara affermazione del ruolo della nozione fisica di tempo nell’ambito della scienza moderna: il tempo, infatti, viene incluso da Galileo tra le “qualità primarie od oggettive” nella sua opera Il Saggiatore del 1623. In seguito Newton, nei Principi Matematici della Filosofia Naturale del 1687, caratterizza esplicitamente la nozione fisica di tempo in riferimento al “tempo assoluto, vero, matematico” che “in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente”. Come si andrà chiarendo, in particolare nel corso della seconda metà del XIX secolo, questo implica che il tempo scandito dagli orologi sia lo stesso, indipendentemente dal loro stato di moto. Questa proprietà intuitiva della nozione di tempo entra tuttavia in conflitto, almeno a partire dagli anni 1880, con alcuni esiti teorici e sperimentali della teoria dei fenomeni elettrici, magnetici e ottici descritti in forma unificata da Maxwell nel 1864. Si fa strada da allora l’idea che si debba pensare a tanti “tempi locali” o “tempi propri” diversi, ognuno associato a un diverso sistema di riferimento in moto relativo rispetto agli altri. Nel 1905 Einstein, nel suo articolo dal titolo Elettrodinamica dei corpi in movimento, pone questa nuova interpretazione della nozione di tempo alla base della teoria della relatività speciale (o ristretta), che riguarda solo le trasformazioni delle coordinate spaziali e temporali tra sistemi inerziali. Nel 1915, anche per capire come tradurre la legge di gravitazione universale di Newton nell’ambito della sua teoria della relatività, Einstein arriva alla definitiva formulazione della teoria della relatività generale, che riguarda le trasformazioni di spazio e tempo tra sistemi di riferimento in moto relativo qualunque. Entrambe le teorie relativistiche di Einstein prevedono che nel passaggio da un sistema di riferimento a un altro in moto relativo si assista a fenomeni di dilatazione temporale. È possibile verificare sperimentalmente quanto previsto dalle teorie relativistiche di Einstein in relazione alla dilatazione temporale nel passaggio da un sistema di riferimento a un altro in moto relativo? Per quanto controintuitiva possa apparire questa caratteristica del tempo, la sua verifica sperimentale è ormai un fatto ben consolidato.

b.
Bruno Rossi (Venezia, 1905 - Cambridge, USA, 1993), protagonista insieme a Enrico Fermi della rinascita della fisica in Italia negli anni 1930.
Il primo esperimento sulla dilatazione temporale prevista dalla relatività speciale viene descritto in un articolo di Bruno Rossi e David Hall pubblicato nel febbraio del 1941 su Physical Review. Nell’ambito dello studio dei raggi cosmici, che sono particelle di alta energia provenienti da fuori dell’atmosfera terrestre, erano state scoperte nel 1937 delle particelle, in seguito chiamate muoni (vd. Asimmetrie n. 10, ndr). Nel giro di poco tempo si capì che i muoni erano simili agli elettroni, salvo che avevano una massa maggiore (circa 200 volte quella dell’elettrone) ed erano instabili, cioè tendevano a decadere in frazioni di secondo in altre particelle. I muoni vengono creati negli strati alti dell’atmosfera nell’urto tra i raggi cosmici (in larga parte protoni) con le molecole dell’aria. Si conoscevano approssimativamente i valori medi dell’altezza alla quale venivano creati, del numero di muoni che arrivava a terra e della loro velocità. Mettendo insieme queste informazioni con quelle relative al tempo medio di vita di queste particelle (dell’ordine dei milionesimi di secondo), si otteneva una discrepanza palese: sarebbero dovuti arrivare a terra, cioè senza decadere prima nel tragitto, molti meno muoni di quanti invece se ne osservavano. Come scrivono Rossi e Hall, gli esperimenti da loro condotti, oltre a permettere una più accurata misura del tempo medio di vita dei muoni, costituivano una verifica della dilatazione dei tempi prevista dalla relatività speciale. Siccome infatti i muoni si muovono a velocità prossime a quella della luce, il loro tempo medio di vita misurato da un orologio sulla Terra risulta dilatato. Questo spiega perché ne vediamo arrivare di più: è come se la natura, osserva Rossi, ci avesse messo a disposizione degli orologi (i muoni con il tempo scandito dallo loro vita media) che si muovono a grandi velocità. Tuttavia la relatività speciale richiede che il processo sia simmetrico. Se viaggiassimo nel sistema di riferimento del muone (dove cioè il muone ha velocità nulla), non ci sarebbe dilatazione temporale. In questo caso però vedremmo la Terra venirci incontro ad altissima velocità. Allora, secondo la relatività speciale, che oltre alla dilatazione dei tempi prevede la contrazione delle lunghezze nella direzione del moto, l’altezza dell’atmosfera apparirebbe minore di quella osservata da terra. In altri termini, senza dilatazione del tempo medio di vita riusciremmo ad arrivare a terra, perché l’altezza dell’atmosfera si contrae rispetto a quella vista da terra. Quindi il numero di muoni che arrivano a terra resta uguale sia nel sistema di riferimento della Terra, sia nel sistema di riferimento del muone. Dall’epoca di questo pionieristico lavoro di Rossi e Hall molti esperimenti hanno confermato le loro previsioni, non più utilizzando i raggi cosmici ma gli acceleratori di particelle.
[as] approfondimento
I gemelli: un non-paradosso
1.
Il paradosso dei gemelli: di ritorno dal viaggio, l’astronauta che ha viaggiato è più giovane del fratello gemello rimasto sulla Terra.

 

Nello stesso articolo del 1905 dove introduce la relatività speciale, Einstein propone un esperimento concettuale: immaginando che si possa far muovere un orologio lungo un percorso chiuso, Einstein prevede che, una volta tornato al punto di partenza, l’orologio debba segnare un tempo inferiore rispetto a un orologio sincrono rimasto fermo in quel punto. In altri termini, la stessa idea si può applicare a due viaggiatori, la cui vita proceda in qualche modo in “sincronia”, ad esempio a due gemelli. Tornato al punto di partenza, il gemello che ha viaggiato come astronauta nello spazio dovrebbe essere più giovane di quello rimasto a terra. Ma perché uno dovrebbe osservare l’altro invecchiato e non il viceversa? Entrambi vedendosi in movimento l’uno rispetto all’altro dovrebbero calcolare un ritardo dei loro orologi.

La cosa si risolve nell’ambito della relatività generale: il gemello che parte subisce due accelerazioni molto forti, la prima per potersi muovere e la seconda per invertire la rotta e tornare da dove era partito. A causa di queste accelerazioni il suo orologio subisce un ulteriore rallentamento di cui non risente il gemello rimasto fermo. Questo fenomeno, noto come paradosso dei gemelli (o degli orologi) si scontra decisamente con il senso comune, ma dal punto di vista della fisica non è un paradosso. La sua applicabilità effettiva ai gemelli deve invece vedersela con l’impossibilità biologica di viaggiare a velocità paragonabili con la velocità della luce, caso in cui l’invecchiamento dell’astronauta diventerebbe evidente: per i gemelli resta quindi solo un bell’esperimento concettuale.

Un altro esperimento sulla dilatazione temporale è dato dalla verifica sperimentale diretta del paradosso degli orologi (chiamato poi più comunemente “dei gemelli”, vd. approfondimento), che viene compiuta per la prima volta nel 1971 da Joseph Hafele e Richard Keating ed è descritta in due articoli pubblicati su Science nel 1972. L’esperimento consiste nell’utilizzo di quattro orologi atomici (con sensibilità dell’ordine dei miliardesimi di secondo, vd. Spaccare il secondo, ndr) sincronizzati tra loro e con gli orologi dell’Osservatorio Navale degli Stati Uniti. I quattro orologi vengono posizionati su aerei che compiono il giro del mondo, al termine del quale si confrontano i tempi indicati dagli orologi che hanno volato con quelli rimasti a terra. I risultati ottenuti confermano “la singolare conseguenza” della teoria sull’invecchiamento asimmetrico dei gemelli. Vale la pena notare, tuttavia, che l’esperimento è particolarmente delicato per varie ragioni, che Hafele e Keating spiegano in dettaglio nel primo articolo. Bisogna, infatti, tenere conto del fatto che l’orologio a terra non si trova su un sistema inerziale, ma segue la rotazione della superficie terrestre. Inoltre, la relatività generale prevede una dilatazione gravitazionale del tempo, secondo la quale un orologio posto, per esempio, sulla superficie della Terra (ma, equivalentemente, di qualunque corpo celeste) scandisce il tempo più lentamente rispetto a un orologio posto a una certa altezza dalla superficie (dove il campo gravitazionale è più debole). Questo effetto, il redshift gravitazionale, è stato verificato sperimentalmente per la prima volta da Robert Pound e Glen Rebka nel 1960. La dilatazione temporale gravitazionale va tenuta presente nell’esperimento di Hafele e Keating: l’orologio atomico che sta a terra è rallentato da questo effetto (gravitazionale) e bisogna essere sicuri che il redshift non mascheri l’effetto (cinematico) di dilatazione temporale legato al moto relativo degli orologi che si intende misurare.
Si potrebbe pensare che queste previsioni teoriche e verifiche sperimentali siano lontane dalla nostra vita quotidiana. Eppure ogni volta che usiamo un navigatore satellitare Gps per sapere quale strada prendere in terra o in mare, stiamo di fatto toccando con mano proprio gli effetti cinematici e gravitazionali che influiscono sulla misura del tempo.


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